Come il cinema americano plasma ancora il “Colonialismo del Pensiero”
Nel vasto panorama della cultura globale, il cinema americano continua a esercitare un’influenza pervasiva che va ben oltre l’intrattenimento. Non si tratta solo di blockbuster, effetti speciali o star hollywoodiane: ciò che viene esportato è un immaginario, un sistema di valori, un racconto del mondo che spesso si impone come universale. Questo fenomeno, che potremmo definire “colonialismo del pensiero”, agisce in modo sottile ma persistente, modellando percezioni, desideri e persino identità collettive. Hollywood ha costruito un impero narrativo in cui l’eroe è quasi sempre americano, il conflitto è risolto secondo logiche occidentali, e il bene e il male sono definiti da coordinate culturali precise. Guerre, crisi, rivoluzioni: tutto viene filtrato attraverso una lente che privilegia il punto di vista statunitense. Anche quando si raccontano storie ambientate altrove, il centro emotivo e morale resta saldamente radicato nel paradigma americano. Questa egemonia non è solo estetica, ma politica e culturale. Come osserva Federico Di Chio nel suo libro dal titolo “Il cinema americano in Italia. Industria, società, immaginari. Dalle origini alla Seconda guerra mondiale” (Vita e Pensiero, 2021), già nel primo Novecento le produzioni statunitensi si imponevano come modelli di riferimento, influenzando profondamente l’industria e l’immaginario locale.
Il cinema americano si presenta spesso come “globale”, ma questa globalità è in realtà una forma di universalismo mascherato. Le storie sono confezionate per essere accessibili ovunque, ma ciò comporta una semplificazione e una standardizzazione dei contenuti. Culture complesse vengono ridotte a stereotipi, lingue a slogans, tradizioni a scenografie esotiche. In questo processo, il pensiero critico rischia di essere anestetizzato. Il pubblico internazionale assorbe modelli di comportamento, di successo, di giustizia che non sempre corrispondono alle proprie realtà. Il cinema diventa così uno strumento di soft power, capace di orientare il consenso e di consolidare gerarchie culturali.
Il “colonialismo del pensiero” non si manifesta solo nei contenuti, ma anche nella forma mentis che il cinema americano promuove: velocità narrativa, risoluzione immediata dei conflitti, centralità dell’individuo, estetica della performance. Questi elementi influenzano il modo in cui pensiamo, comunichiamo e persino immaginiamo il futuro. In Italia, come altrove, questa influenza ha avuto effetti ambivalenti: da un lato ha stimolato innovazione e confronto, dall’altro ha indebolito la capacità di produrre storie autonome, radicate nel luoghi e nella memoria collettiva. Nel costruire una narrativa pervasiva e ideologicamente orientata, il “colonialismo del pensiero” si è servito di almeno tre grandi categorie tematiche, ciascuna da noi riassunta attraverso un gruppo di film significativi.

The Hurt Locker, Argo, American Sniper (by AI Artist).
La prima, forse la più esplicita, è quella della propaganda bellica. Attraverso il cinema, questa categoria ha contribuito a consolidare l’immagine dell’intervento militare statunitense come necessario, eroico e moralmente giustificato. Un esempio emblematico è The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow, film premiato con l’Oscar che celebra il soldato americano come figura solitaria, votata al sacrificio e dotata di una superiorità morale implicita. Il conflitto viene rappresentato non tanto nella sua complessità geopolitica, quanto come sfondo per un dramma individuale che rafforza la mitologia dell’eroe. In Argo (2012), Ben Affleck rinarra la crisi degli ostaggi in Iran, ponendo al centro l’ingegno e il coraggio statunitense. Le tensioni locali e le dinamiche storiche vengono semplificate o oscurate, mentre l’operazione di salvataggio diventa un racconto di trionfo americano, funzionale a una visione unilaterale del mondo. Ma è forse con American Sniper (2014) di Clint Eastwood che questa retorica raggiunge il suo apice: il conflitto in Iraq viene raccontato esclusivamente dal punto di vista del cecchino americano, trasformato in simbolo di patriottismo e sacrificio. La guerra diventa così una questione di orgoglio nazionale, svuotata di contraddizioni e ridotta a una narrazione binaria tra “noi” e “loro”. Questi film non sono semplici prodotti di intrattenimento: sono strumenti narrativi potenti, capaci di influenzare la percezione pubblica e di legittimare visioni del mondo che escludono il dialogo, la complessità e la memoria condivisa.

The Last Samurai, Slumdog Millionaire, Avatar (by AI Artist).
La seconda categoria attraverso cui il “colonialismo del pensiero” ha consolidato la propria egemonia culturale è quella della “esotizzazione dell’altro”. In questo ambito, il cinema ha spesso rappresentato culture non occidentali come sfondi pittoreschi, spirituali o arcaici, da salvare o interpretare attraverso lo sguardo dell’Occidente. Un esempio emblematico è The Last Samurai (2003) di Edward Zwick, dove il protagonista americano assume il ruolo di salvatore di una cultura giapponese idealizzata, immersa in un’aura di nobiltà e decadenza. Il Giappone diventa così teatro di una redenzione personale, ma anche di una narrazione che attribuisce all’eroe occidentale la capacità di comprendere, incarnare e persino guidare valori “altri”. In Slumdog Millionaire (2008) di Danny Boyle, l’ambientazione indiana viene filtrata attraverso logiche narrative occidentali, che riducono la complessità sociale e culturale a una sequenza di stereotipi visivi e drammatici. Il racconto si sviluppa secondo una struttura favolistica che, pur affascinante, tende a semplificare e spettacolarizzare la realtà locale per renderla compatibile con l’immaginario globale. Ma è con Avatar (2009) di James Cameron che il meccanismo del “white savior” raggiunge una nuova formulazione, questa volta in chiave fantascientifica. L’eroe umano, proveniente da una civiltà tecnologicamente avanzata ma moralmente corrotta, si integra in una società aliena e ne diventa il leader nella lotta per la liberazione. Anche qui, la cultura “altra” — per quanto extraterrestre — viene rappresentata come pura, spirituale e bisognosa di guida esterna, reiterando il paradigma secondo cui la salvezza arriva sempre da fuori. Questi film, pur diversi per genere e ambientazione, condividono una medesima struttura narrativa: quella che assegna all’Occidente il ruolo di interprete, mediatore e redentore delle culture “altre”, riducendone la complessità e rafforzando una visione gerarchica del mondo.

Independence Day, Captain America: The First Avenger, Top Gun: Maverick (by AI Artist).
La terza categoria, più sottile e sofisticata rispetto alle precedenti, è quella della “tematizzazione del soft power”. Qui il cinema non agisce attraverso la retorica esplicita come nelle categorie precedenti, ma attraverso una seduzione simbolica, capace di veicolare valori, modelli e leadership culturale con apparente leggerezza. In Independence Day (1996) di Roland Emmerich, l’umanità intera si salva grazie alla guida americana, con la Casa Bianca elevata a fulcro simbolico del mondo. Il film costruisce un immaginario in cui la leadership statunitense non è solo militare, ma anche morale e universale, capace di unire le nazioni sotto un’unica bandiera in nome della sopravvivenza. Con Captain America: The First Avenger (2011) di Joe Johnston, il soft power si fa esplicito: il supereroe incarna i valori fondanti della democrazia americana, ma lo fa attraverso il linguaggio dell’intrattenimento, mascherando la propaganda sotto la superficie del racconto epico. Il patriottismo diventa spettacolo, e lo spettatore ne assorbe i codici senza percepirne la natura ideologica. Infine, Top Gun: Maverick (2022) di Joseph Kosinski rappresenta il rilancio del mito militare statunitense in chiave spettacolare e nostalgica. Il film, con il suo impatto globale, riattiva l’immaginario eroico degli anni ’80, aggiornandolo alle sensibilità contemporanee. Non va dimenticato che la versione originale del 1986 fu concepita anche come strumento di reclutamento, dimostrando quanto il confine tra fiction e strategia comunicativa possa essere permeabile. Questi titoli non si limitano a raccontare storie: costruiscono visioni del mondo, modelli di comportamento e gerarchie simboliche. Il soft power cinematografico agisce così come forza invisibile, capace di orientare il consenso e di plasmare l’immaginario globale con eleganza e persuasione.

Killers of the Flower Moon, Los Colonos, Dahomey (by AI Artist).
A contrastare il paradigma dominante del controllo del pensiero per immagini, si delinea una contro-categoria cinematografica: un filone ancora embrionale, complesso e contraddittorio, che potrebbe in futuro generare sviluppi inediti e dirompenti. Si tratta di opere che non si limitano a raccontare, ma che interrogano la storia — del presente e del futuro — attraverso prospettive critiche, decentrate, talvolta disturbanti. Killers of the Flower Moon (2023) di Martin Scorsese e’ un’opera che denuncia il genocidio degli Osage negli Stati Uniti, mostrando come l’avidità bianca abbia distrutto una cultura. Tuttavia, la narrazione resta centrata sul punto di vista bianco, rivelando i limiti dell’autocritica hollywoodiana. Il film solleva interrogativi profondi sulla rappresentazione del trauma e sulla possibilità — o il limite — di raccontare l’altro senza ricadere in una prospettiva egemonica. Spostandoci in Cile, Los Colonos (2023) di Felipe Gálvez Haberle decostruisce la narrazione coloniale classica, pur non appartenendo al genere western americano. Il film si muove tra allegoria e revisionismo, mostrando come la violenza coloniale non sia solo un fatto storico, ma una struttura narrativa che può essere smontata e riscritta. Infine, Dahomey (2024) di Mati Diop: un documentario poetico e politico sul ritorno delle opere d’arte rubate dal Benin durante il colonialismo francese. Diop, regista franco-senegalese, usa il cinema come strumento di restituzione e di interrogazione: chi possiede la memoria? Chi decide cosa è arte? Questi film non si limitano a “criticare” il colonialismo: lo mettono in scena, lo interrogano, lo smontano. Alcuni lo fanno dall’interno del sistema (come Scorsese), altri da prospettive marginali o postcoloniali. Questi titoli non costituiscono ancora un movimento organico, ma indicano una direzione: quella di un cinema che non si accontenta di rappresentare, ma che cerca di disinnescare le strutture profonde del potere visivo. Un cinema che, forse, sta imparando a guardare davvero e che può diventare uno strumento prezioso per sviluppare un pensiero critico.
Resistere al “colonialismo del pensiero” non significa rifiutare il cinema americano in blocco, né aderire a una “cancel culture” (stile statunitense) dogmatica e sterile. Al contrario, significa riconoscerne i meccanismi di egemonia simbolica, sviluppare uno sguardo critico e promuovere una pluralità di narrazioni capaci di raccontare il mondo da prospettive diverse. Significa restituire dignità alle culture marginalizzate, sostenere produzioni locali e incoraggiare visioni che non si pieghino all’uniformità globale imposta da un immaginario occidentale dominante. La sfida è aperta: il cinema può ancora essere uno spazio di libertà, ma solo se sapremo riconoscere e decodificare le sue egemonie invisibili. Un revisionismo consapevole del “potere colonialista” del pensiero, esercitato attraverso le immagini, potrebbe aiutare l’Occidente — con gli Stati Uniti come suo epicentro — a confrontarsi con i propri limiti. Potrebbe persino contribuire a rivedere una società che, pur avendo prodotto nei secoli cultura, innovazione e bellezza, oggi rischia di implodere sotto il peso della propria arroganza e decadenza. Uscire dalla convinzione di essere il centro del mondo è il primo passo. Accettare una cultura realmente multiculturale — non come somma di differenze addomesticate, ma come dialogo costruttivo tra visioni autonome — è la direzione da intraprendere. Il cinema, in questo senso, può diventare uno specchio critico e uno strumento di trasformazione: un luogo dove riconoscere i nostri difetti, prima che la “realpolitik” che governa Hollywood e i grandi media ci conduca, silenziosamente, verso l’autodistruzione.
