Le “case anagrafiche” di Kisutu raccontano la storia moderna della Tanzania

© arcomai I Le “case anagrafiche” di Kisutu.

Dar es Salaam, il cui nome in arabo significa “Casa della Pace”, era originariamente una pacifica città dell’Oceano Indiano, o cosi’ doveva apparire al primo sultano di Zanzibar, Seyyid Majid, quando decise di trasferirvi la propria corte nel 1866. In seguito, i suoi successori riportarono la dimora a Zanzibar, ma Dar (cosi’ viene anche chiamata la città in gergo popolare) si era nel frattempo trasformata da villaggio di pescatori a cittadina. Nel 1921 diventerà capitale del Tanganica (come era chiamato il paese prima dell’unificazione con Zanzibar nel 1964) fino a che nel 1996 questa fu spostata a Dodoma nel centro del paese africano, pur rimanendo ancora oggi il centro economico ed amministrativo dello stato, oltre a essere capoluogo della regione omonima. Importanti sedi del governo e ambasciate straniere sono infatti ancora qui.

© arcomai I Le “case anagrafiche” di Kisutu.

Oggi quella cittadina e’ una metropoli di circa 4.5 milioni di abitanti. Un numero che esibisce tutto il suo peso col contrasto fra i massicci edifici moderni che, in diverse fasi dall’unificazione ad oggi, sovrastano quei pochi rimasti costruiti nella seconda meta’ del secolo scorso. Questo processo edilizio e’ evidente nel quartiere portuale di Kisutu che, come un sito archeologico di modernariato urbano, testimonia l’architettura coloniale formatasi nel secolo compreso tra il 1860 ed il 1960. Gli arabi furono i primi ad arrivare e a costruire una serie di manufatti lungo la Sokoina Drive nel centro del rione, tra cui lo Old Boma, l’edificio realizzato nel 1867 come residenza per gli ospiti del sultano, oggi sede dell’Associazione degli Architetti della Tanzania. Ma e’ solo con l’arrivo dei Tedeschi nel 1891 (con la Compagnia Tedesca dell’Africa Orientale, un’organizzazione fondata nel 1885 allo scopo di amministrare la colonia dell’Africa Orientale Tedesca) che la città inizierà uno sviluppo urbano successivo ad un piano, inizialmente caratterizzato da una suddivisione del territorio per gruppi etnici e poi sviluppato secondo una pianificazione in linea con le tradizione europea, che ancora oggi e’ leggibile nella griglia urbana. La loro architettura si distingueva dall’utilizzo di porticati, verande, soffritti alti a creare stanze ventilate, espedienti tecnici per moderare il clima caldo e umido attraverso l’ombreggiatura e la ventilazione naturale. I centro commerciale di Samora Avenue fu eretto in questo periodo ed integrato con file di alberi.

A partire dal 1916 i Britannici presero il controllo economico e politico della città che conservarono fino al 1961, anno d’indipendenza dall’impero britannico. Avendo trovato molte delle infrastrutture già realizzate dai loro predecessori, i nuovi colonizzatori si dedicarono al mantenimento ed espansione delle aree urbanizzate sempre secondo la divisione territoriale per razze, dividendo la città in tre sezioni separate: Usunguni con belle strade alberate e servizi vari per gli europei; Uhindini ad occidente della prima, destinata ai nuovi immigrati provenienti dall’India, importati dagli Inglesi per adempiere ad una serie di lavori manuali; e Uswahilini, dove oggi sorge il grande mercato di Kariakoo (a pochi metri da Kisutu), priva di qualsiasi infrastruttura, per le popolazioni indigene. Sotto il loro potere sarà proprio il gruppo sociale indiano ad espandersi e con esso l’economia della città dando vita una ad nuova stagione edilizia, testimoniata da un patrimonio inestimabile di architettura tardo déco ancora visibile in Kisutu.

© arcomai I Le “case anagrafiche” di Kisutu.

Si tratta principalmente di edifici realizzai in tre decenni tra la fine degli anni ’30 e la fine dei ’60 del secolo scorso, come si legge dalle iscrizioni sulle facciate che riportano sia la data di costruzione che il nome del palazzo, secondo un’abitudine tipicamente britannica. Realizzati seguendo tipologie nuove, dettate da nuove modalità di lavoro ed economie legate a traffici commerciali internazionali, queste case si sviluppano su massimo 4 livelli con al piano terra il negozio ed uffici e ai piani superiori le residenze. Spesso tinteggiate con colori a pastello, le houses riprendono in facciata stilemi tardo déco ma con evidenti contaminazioni esterne come quell’architettura coloniale sviluppata dagli Italiani negli anni ’20 e ’30 del secolo nel Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia).

Salama Building 1937, Sulemani Building 1937, Cycle House 1951, Ramjiharji Mansion 1959, queste solo alcune delle generalità identificative impresse sugli edifici. Come dati anagrafici di una persona, o meglio di una casa per persone, i loro intonaci usurati, le superfetazioni, lo stravolgimento delle destinazioni d’uso originarie segnano anche la fine di un’epoca che coincide con la presa al potere di Julius Nyerere (1922-1999), padre fondatore della Tanzania nonché Presidente del paese dal 1964 al1985. Considerato una delle personalità più importanti dell’Africa moderna, durante il suo mandato, intraprese un progetto di sviluppo di stampo socialista, annunciato con la Dichiarazione di Arusha del 1967, che stabiliva i principi fondamentali del Socialismo Africano, basato in primis sul processo di collettivizzazione del sistema agricolo del paese, cosiddetto Ujamaa. Obiettivo di Nyerere era quello di portare la Tanzania all’autosufficienza, rifiutando energicamente l’ingresso del paese nelle logiche di mercato internazionale proprie del modello occidentale, al contrario del vicino Kenya che invece abbracciò subito dopo l’indipendenza la logica del capitalismo internazionale. Sebbene possa sembrare che egli non sia riuscito a contenere le pressioni degli investitori stranieri, o meglio che la sua eredita’ politica non sia stata forte abbastanza da ostacolare il cosiddetto “sviluppo” dei “nuovi colonizzatori” del mercato globale, i suoi presupposti hanno contribuito a rallentare quei processi di trasformazione urbana che ancora oggi ci permettono di leggere qui a Dar un passato recente che e’ già storia.

© arcomai I Le “case anagrafiche” di Kisutu.


Back to Top