La conquista della forma. Arte e architettura combattono la stessa battaglia per trovare un’adeguata definizione di sé

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Racconto il modo in cui una forma combatte per trovare una propria definizione”, queste, in estrema sintesi e nelle sue stesse parole, le intenzioni narrative di Matthew Barney alla base del Cremaster Cycle, saga epica del muscolo crimasterico, un protagonista sicuramente originale, analizzato senza traccia di ironia né di qualche furbesca ricerca di erotismo o di allusione sessuale, per una “grande metafora genitale” come la definisce Ada Venié, per l’ analisi scientifico-andrologica di un viaggio nell’inconscio attraverso la criptica simbolicità di un racconto che qualcuno ha definito voluttuosamente casto. Ed ogni viaggio ha bisogno di uno spazio, mentale o reale, entro il quale avvenire e dipanarsi, ogni viaggio attraversa luoghi, scopre orizzonti, crea relazioni, ogni viaggio ci cambia, avvicinandoci ad una meta finale della quale non sempre siamo consapevoli, soprattutto il viaggio entro un “interiore” fisico-biologico che non implica solamente un’evoluzione spazio-temporale, ma una graduale, laboriosa, travagliata e traumatica trasformazione verso una progressiva definizione di sé.

Pur nella sostanziale impossibilità del racconto organico di una trama o di una narrazione consequenziale, oltretutto superflua in questa sede, il rapporto tra interno ed esterno, tra interiorità psichica ed esteriorità corporea pare il leit motiv ricorrente in grado di ricucire i vari episodi del ciclo ed istituire un legame tra l’accadere e lo spazio dell’accadere. Come il corpo umano avvolge e definisce un “dentro”, uno spazio interiore del pensiero, della memoria, dei sentimenti, diversificandolo da un “fuori” eminentemente fisico, che la volontà è in grado di plasmare e modificare producendo mutazioni non necessariamente naturalistiche, così l’architettura è il mezzo fisico, progettato e costruito dall’uomo, per racchiudere lo spazio interno dell’esperienza quotidiana, quello che Antonino Saggio definisce “organo motore”, “elemento genetico dell’architettura”, in diretta relazione con aspirazioni e paure psichiche individuali, differenziato da uno spazio esterno collettivo, ma con esso in reciproca tensione. La citazione che apre il mio scritto, parole di un artista sottilmente concettuale che, con disarmante semplificazione, si definisce “astratto”, si sovrappone con sorprendente aderenza a ciò che ogni architetto potrebbe dire di sé, perché l’architettura è, in fondo e soprattutto, la ricerca dell’interpretazione formale, della traduzione materica di una funzione e di un’esigenza estetica ed intellettuale in una forma di assolutezza tale che ne escluda ogni altra.

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Architettura e corpo si mettono in relazione con lo spazio della loro esistenza attraverso una superficie modellabile, di cemento o pietra o di epidermide, per entrambi margine di confine tra interno ed esterno: viene in mente l’architettura “pelle e ossa” di Mies van der Rohe, lo “scheletro” strutturale del razionalismo di Le Corbusier, l’organicità antropocentrica dell’architettura di Frank Lloyd Wright, per citare solo alcune attribuzioni antropomorfe di un concetto di architettura radicato nella nostra origine biologica, nell’esperienza primigenia del nostro corpo fisico, il primo volume nello spazio del quale abbiamo coscienza, che si espande e si organizza secondo una programmata struttura anatomica. Sia il corpo che l’architettura, in quanto macchine perfette messe a punto dall’uomo o con la volontà o con l’intelletto, si possono far carico di una fondamentale opera di mediazione fra due limiti estremi rappresentati da una parte dalla realtà storica, ciò che già esiste, la materia, vivente e non, l’involucro visibile, e dall’altra da ciò che è destinato a riempirlo e ad informarlo in quanto contenuto, di per sé senza luogo, senza spazio, senza forma, l’interiorità psicologica per il corpo e la funzione per l’architettura.

E’ questa una ipotizzabile chiave di lettura che può far luce sulla scelta di Barney riguardo alla location newyorkese di quello che egli stesso definisce episodio di massima significanza, perno dell’intero ciclo, Cremaster 3, i scenografici interni architettonici del Chrysler Building e del Guggenheim Museum, due edifici-simbolo dell’architettura americana del ‘900.

Indiscussa icona del Déco d’oltre oceano, capolavoro di William Van Alen, equilibrato kitsch di rigurgiti neogotici e semplificazioni tecnologiche, iperdecorativismo esoticheggiante e nervosismi grafici art nouveau, fors’anche con inconsapevoli anticipazioni pop – la cuspide in acciaio che, voluta dal committente e proprietario, l’industriale Walter Percy Chrysler, richiama il radiatore dell’auto omonima, i giganteschi tappi di radiatore inseriti negli spigoli del quarantesimo piano, le aquile svettanti verso i quattro punti cardinali – il Chrysler Building emana dalla sua struttura di marcato verticalismo una spiritualità tenebrosa, un fascino solenne ed ambiguo giocato su tesi confronti lineari e spettacolari fughe spaziali. La caratterizzazione fortemente iconica dell’edificio fa passare in secondo piano certe raffinatezze progettuali quali la rastremazione degli spigoli per un effetto ottico di maggior slancio, la complicata concezione della copertura, geometrica scalata di sezioni di arco digradanti a suggerire l’idea di una progressione ed una conclusione formale e concettuale della struttura, convogliata e condensata nella guglia, elemento di memoria gotica di grande significato simbolico, esaltazione estrema dell’idea dell’ascesa verso un altrove metafisico che Barney ci suggerisce denso di nubi tempestose e di vapori atmosferici.

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Immagini tratte da “Cremaster 3” (Catalogo della mostra tenuta a Colonia nel 2002).

Metafora perfetta dell’organizzazione piramidale della massoneria nella vicenda complicatamente simbolica recitata dai personaggi, il Chrysler Building è il vero protagonista di un intricato mixage di genere horror, thriller, zombie, folk, fantasy, melodramma, allucinante contaminazione e straniante ibridazione di solennità wagneriana ed afflato romantico. Il film sottopone lo spettatore ad una vera e propria overdose di immagini, ad una sollecitazione ottico-percettiva al limite del disumano (dura ben tre ore e quaranta minuti), risucchiandolo in un caleidoscopio di visioni oniriche di perfezione assoluta, di algida eleganza, in straordinaria sintonia con la struttura architettonica, ripresa ed esaltata nelle sue caratteristiche stilistiche dall’impostazione centrale e simmetrica delle composizioni sceniche, dalla preziosità cromatica dove il bianco lattiginoso rivela una insospettata scala di varianti, dalle luci fredde sapientemente giocate in funzione di effetti plastici tridimensionali di morbida levigatezza.

Più esplicito il significato allegorico delle scene ambientate nel Guggeheim Museum, surreale anfiteatro, arena impropria, girone dantesco, dove la scalata alle balconate, l’arrampicata attraverso l’ampia spirale rovesciata, forma geometrica simbolo del divenire e dell’itinerario della conoscenza umana verso la divinità, si svolge secondo le tappe di una sorta di percorso espiatorio, una tesa corsa ad ostacoli fisica e simbolica, sottolineata nel suo drammatico evolversi dalla continuità ascensionale della struttura, che si avvolge su sé stessa secondo diametri crescenti: il grande vuoto centrale, uno spazio rarefatto, invaso dalla luce della cupola trasparente, si espande, si dilata, si diluisce, tracciando un percorso architettonico di chiaro significato mistico e spirituale lungo il quale si snoda il ritmo degli eventi, suggerendo il senso della fine.

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Immagini tratte da “The cremaster cycle: Museum Ludwig, Köln, 2002 / Matthew Barney” (Catalogo della mostra tenuta a Colonia nel 2002, a Parigi e a New York nel 2003).

Lo stesso Barney rivendica la valenza eminentemente scultorea dell’intero ciclo – “L’insieme è tutto un quadro plastico dentro uno stesso arco narrativo”, dichiara – un quadro plastico entro un capolavoro plastico per eccellenza, l’architettura, opera dell’uomo per l’eternità, alla quale egli oppone sculture molli in materiali deperibili, la vaselina, il polistirolo, il silicone, sull’orlo dell’autodistruzione: quando questa realtà scenica si sarà sciolta, disgregata e liquefatta, divenuta pallida traccia di un evento grandioso del quale nulla resta se non una prova documentale sotto forma di video, ciò che testimonierà l’accaduto sarà, come sempre, l’architettura.

Vilma Torselli è nata a Genova, città in cui ha vissuto fino al conseguimento della maturità classica. Trasferitasi a Milano, ha frequentato la facoltà di architettura del Politecnico, dove si è laureata, sotto la docenza di nomi storici dell’architettura italiana, quali Ernesto N. Rogers e Ludovico Barbiano di Belgioioso, dello studio B.B.P.R., Franco Albini, Franca Helg, Vittorio Gregotti, Vittoriano Viganò. Ha scelto la libera professione occupandosi di urbanistica e progettazione architettonica, con particolare predilezione per l’edilizia residenziale e l’architettura d’interni.

 

 


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