Partenza/arrivo dell’arte pubblica dalla/in stazione

Inaugurata lo scorso Luglio la manifestazione artistica Accademia in stazione, allestita all’interno della stazione ferroviaria di Bologna all’interno delle celebrazioni organizzate dall’Associazione dei familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980. Nicola Desiderio, direttore di ARCOMAI, ha incontrato Mili Romano, curatrice della mostra.

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© arcomai l Numero e collocazione delle opere esposte nelle edizioni 2003 (nero), 2004 (blu) e 2005 (rosso).

Nicola Desiderio. E’ dal 1997 che ogni anno, in occasione delle celebrazioni “per non dimenticare” la strage del 2 agosto 1980, l’Accademia di Belle Arti di Bologna entra in stazione e temporaneamente la trasforma in un vero e proprio laboratorio di progetti di arte pubblica. Ci puoi raccontare com’è nata questa iniziativa, chi ha coinvolto e quale è stato il percorso che l’ha portata fino a quest’ultima edizione?

Milli Romano. E’ nata da una proposta di “mostra” che è stata fatta a me e a Roberto Daolio da Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto, e da alcuni funzionari delle Ferrovie dello Stato di Bologna (allora non c’era ancora la gestione centralizzata a Roma di “Grandi Stazioni”). Quei quadri e quelle sculture che probabilmente tutti si aspettavano quando ci hanno chiesto una “mostra”, le abbiamo sostituite con installazioni e interventi disseminati ovunque: binari, pensiline, sale d’attesa, sottopassaggi, atri, biglietterie, i treni stessi. La particolarità di questi interventi è che sono tutti site-specific, legati cioè alla specificità del luogo, al contesto, lavori originali scaturiti dall’attento studio dello spazio e di chi lo attraversa, della sua storia passata, delle sue funzioni. Si è trattato dunque sin da subito di opere non nate precedentemente nei laboratori dell’Accademia o nel chiuso degli studi dei singoli artisti, come spesso accade con sculture, quadri, disegni, fotografie, bassorilievi eccetera che vengono “esposti”,  ma di progetti che nascono dall’osservazione, dallo studio e dalla relazione con lo spazio nel quale si interviene, e dove il fruitore, il pubblico, viene ad avere un ruolo più determinante di produttore di senso, fondamentale per un lavoro di arte pubblica.

Da subito è stato importante far accettare ai nostri interlocutori la pratica di un metodo di lavoro e di osservazione del tutto nuovi dove la posizione dell’artista, il suo sguardo e la sua individualità dovevano necessariamente rapportarsi e tenere conto, prima di progettare un lavoro, della realtà antropologica, sociale, geografica, storica, altra. Per chi lavora con lo spazio pubblico non c’è una ricetta valida per tutte le occasioni, è più una graduale educazione a guardare in modo diverso alla città e al territorio, un metodo non rigido, univoco e soprattutto non autoreferenziale. I linguaggi espressivi sono stati sin da subito i più diversi:

  • installazioni video (una per tutte, “Break out” di Alessandra Andrini: la proiezione video di un bambino che gattona coinvolgeva e obbligava il pubblico ad una reazione, difficilmente passava inosservata. Anche solo qualche ora passata a registrare le osservazioni della gente, le loro risposte, la reazione  nel trovarsi  in mezzo ai loro piedi quello “sgambetto virtuale”, i racconti che suscitava,  equivaleva a settimane di lavoro “sul campo” da parte di sociologi, antropologi eccetera);
  • installazioni fotografiche (Monika Stemmer che con “Arrivi/Partenze” ha realizzato un sottilissimo lavoro storico-relazionale sull’immigrazione/emigrazione femminile in Emilia Romagna dall’inizio secolo e ha ricoperto tutte le cassette elettriche del sottopassaggio con i ritratti di donne straniere che avevano accettato di essere coinvolte nell’azione e le avevano dato le loro foto e le loro storie);
  • performance (Sissi con “Daniela ha perso il treno” in cui un abito molto più che “ingombrante” realizzato con camere d’aria di  pneumatici impediva all’artista di salire su un ETR diretto a Milano; Sandrine Nicoletta che in collaborazione con Maurizio Bucca ha realizzato un’improvvisazione/composizione musicale per contrabbasso e suoni d’ambiente; Alessandra Montanari con “Binari sonori” e “Creature interstiziali”,composizioni e installazioni sonore in collaborazione con musicisti);
  • azioni interattive e relazionali (gli annunci all’altoparlante sui treni in arrivo o in partenza fatti da bambini, di Margherita Moscardini, o il “biglietto a destinazione casuale”, ancora di Alessandra Andrini, pubblicizzato dagli altoparlanti e acquistabile in biglietteria per 20.000 lire, che offriva al viaggiatore-giocatore un viaggio andata e ritorno per una destinazione che scopriva solo aprendo la busta chiusa nella quale gli veniva consegnato);
  • ma anche sculture che in qualche modo utilizzassero materiali del luogo, come la panchina realizzata da Paolo Bertocchi con le vecchie coperte dismesse da cuccette e wagon lits, che stava di fronte a quella reale come doppio parodico.

Quando si è invitati a lavorare in uno spazio pubblico è il processo che è importante, i meccanismi di pensiero, reazione e relazione, nonché una  partecipazione più diretta che si vorrebbe mettere in movimento. Mutando l’ordine dei percorsi abituali, suscitando nel pubblico piccole sorprese, degli straniamenti percettivi e coinvolgimenti divertiti si attiva un’immediata reazione e lo si porta a porsi delle domande e ad interagire. Un aspetto straordinario degli interventi d’arte nella città, nei luoghi di attraversamento e non deputati a questo è proprio il fatto che possono anche essere invisibili, non si impongono mai, hanno il fascino dell’incontro imprevisto, e possono essere effimeri. Anche la memoria, il ricordare ciò che in stazione è accaduto, non è mai retorica, enfatica o celebrativa, ma è passato che si trasforma, riattualizzato, attraverso l’energia creativa, e gli interventi, ora effimeri ora permanenti, ora ludici ora più concettuali, sono sempre all’insegna della levità, del tocco leggero, cercando sempre di rendere l’altro, casuale passante-viaggiatore o osservatore intenzionale, parte integrante in un dialogo aperto e dinamico.

La memoria di un avvenimento di morte, come in questo caso un attentato terroristico, è continuo stimolo per lavorare sulle energie vitali e sul divenire antropologico dei luoghi. Per darti un’idea degli interventi che, negli anni, più alla memoria si sono ispirati, ricordo qui  il lavoro di Lisa Gherardi, una valigia aperta che lasciava cadere sulla grande scalinata di accesso al sottopassaggio ovest  delle foto-frammenti di vita vissuta e tracce di un tempo e di un viaggio bruscamente interrotto, o “Le dolci attese” di Elisa Freato, realizzato su uno dei binari: quattro orologi senza lancette, realizzati con caramelle colorate a forma di orsetto, disegnano minuti di attesa a volte arrabbiati, a volte allegri, a volte speranzosi, a volte spensierati, nel quinto orologio invece ricompaiono le lancette, immobili, per sempre ferme sulle 10,25 del 2 agosto. Per darti ancora un’idea di ciò che può accadere quando si interviene con l’arte in uno spazio pubblico, aggiungo che questo lavoro, installato poche ore prima dell’inaugurazione, è arrivato a stento ad essere visto, per un fugace momento, perché è stato smembrato subito, mangiato e spazzato via in pochissimo tempo. Non esistono transenne o elementi protettivi quando si lavora col pubblico e bisogna sempre considerare un certo imprevisto. Il lavoro “diviene”, inserito in un flusso di reazione che non puoi prevedere del tutto. Un altro bel lavoro che traeva spunto dalla storia del luogo-nonluogo stazione è stato “Tourist Information” di Vanessa Chimera: qui un oggetto usato abitualmente per monumenti e siti turistici come una “Videoguida” ricostruiva le memorie del non luogo diventato luogo a partire dall’atto terroristico e, nel susseguirsi di immagini dei segni architettonici e della storia della stazione dalla sua costruzione, arriva a quel buco nero e al silenzio assoluto con il quale il video si chiude. Nove anni di interventi sono molti e potrei stare a raccontare per ore.

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Dora Pistillo, Humus (2003); Lucilla Canderolo, Sogno di una sala d’attesa (2004), Alessandra Montanari, Art Crossing (2005).

N.D. Poiché si ha l’impressione che il termine “arte pubblica” venga spesso frainteso con “arredo urbano”- se non addirittura con “abbellimento”-  ti chiedo se puoi dare una definizione che possa aiutare a far conoscere un campo dell’arte purtroppo poco diffuso in Italia.

M.R. L’arte come “arredo” è il tradizionale uso dell’arte in uno spazio pubblico, quando va oltre il “monumento”. Viene definita tale soltanto perché invece di stare in un museo sta in uno spazio non deputato alla conservazione e all’esposizione: giardini pubblici (qui bisognerebbe aprire una parentesi sull’architettura dei giardini e sulla nuova funzione riconosciuta all’arte per un ridisegno del territorio e delle sue potenzialità), scuole, biblioteche, università, ministeri, ospedali, negozi, bar, centri commerciali. Sempre più, negli ultimi anni, questi spazi si aprono all’arte, ma la maggior parte delle volte è difficile che l’intervento vada oltre il quadro alle pareti, la scultura posizionata magari dove non arrechi troppo intralcio, o il trompe l’oeil, murale o mosaico. Begli interventi di arte ambientale, nessuno lo mette in dubbio, soprattutto quando vengono invitati grandi artisti a realizzarli.  Non dimentichiamo che alla base di queste presenze, e di altre molto meno prestigiose c’è spesso quella legge del 2% che risale all’immediato dopoguerra e che destina del denaro all’”inserimento” di opere d’arte. La parola “inserimento” contenuta nella legge fa già capire che si tratta di lavori che il più delle volte non hanno nulla a che fare con il contesto e sono calati dall’alto, passando direttamente dallo studio degli artisti che li hanno realizzati, all’ambiente esterno, senza che ci sia nessun legame con esso. La maggior parte delle sculture, dei bassorilievi, decorazioni in ceramica, fontane eccetera che troviamo in cortili di aree abitative, giardini, scuole  sono il frutto di un “inserimento” a lavoro architettonico o edilizio già concluso, non di una collaborazione fra architetti, artisti, urbanisti ( questo nei casi migliori) o fra geometri e ingegneri ( nella stragrande maggioranza dei casi visto che le nostre città in massima parte sono edilizia e non architettura). A questo proposito vorrei sottolineare che qualcosa nel campo di un rinnovamento della lettura di questa legge è stato fatto, e proprio qui in Emilia Romagna, con la legge 16/02, alla cui stesura ho partecipato un po’ anch’io, che si propone di stimolare e sovvenzionare il più possibile l’architettura e l’arte contemporanee auspicando una lettura della legge del 2% che veda entrambe le discipline collaborare fattivamente sin dalla fase del progetto. Obiettivo, a volere sintetizzare, è da una parte la creazione di un ambiente più gradevole, avvolgente e consono alla vita umana, creando percorsi di colore “più armonici” oltre che pause per la mente; dall’altra assolve alla funzione sociale di diffondere l’arte, metterla quasi “al servizio” della gente ma facendo diventare la gente, quando possibile, soggetto attivo.

L’arredo, l’abbellimento, il decor urbano, sono una funzione dell’arte pubblica che si preoccupa di creare un ambiente esterno più gradevole. L’arredo urbano e la città-Museo a cielo aperto sono stati gli obiettivi che si sono posti, fra i primi in Europa agli inizi degli anni ’80, la Spagna con il modello Barcellona città d’arte e l’Olanda, ad  Amsterdam, Rotterdam e altre città, accompagnati sempre però da un’attenzione grande e da una grande spinta alla sperimentazione architettonica e ad una progettazione di qualità. Nel corso degli anni facendo maturare esperienza e sperimentazione il modello di città “d’arte” è naturalmente evoluto in “città di cultura” focalizzato sul mutamento culturale dell’intera società e dei criteri di progettazione dell’abitare. A tal fine si sono consolidate e sono ormai ordinaria amministrazione pratiche volte a sostenere programmi finanziati dallo stato e dalle pubbliche amministrazioni nei quali l’arte è uno strumento importante di lettura degli spazi, di intervento di riqualificazione urbana al pari e in stretto contatto con tutte le discipline impegnate nel disegno o nel ridisegno di un’area tenendo conto delle esigenze di chi quelle aree dovrà abitare o usare. Stiamo parlando naturalmente di paesi che, diversamente dal nostro, hanno scelto di dare grande attenzione alla sperimentazione e innovazione finanziando la ricerca, la nuova e giovane architettura e l’arte contemporanea. Credo che, anche quando la si vuole nella sua funzione di arredo, l’arte dovrebbe porsi come interrogativo più che come certezza (la certezza in molti casi è data dalla posizione monocentrica dell’artista che crea spesso un’opera che riflette più la sua ricerca poetica che il suo sforzo di entrare in rapporto dialogico con il luogo). Dunque nulla contro l’arredo e la poeticizzazione dello spazio attraverso la bellezza secondo una visione più dinamica, aperta e problematica, comunicativa e relazionale, capace di attivare delle energie che ogni luogo ha e che lo distinguono dagli altri. Entrando nello spazio pubblico come un’interferenza e un tentativo di relazione dinamica con i cittadini, l’arte mette in gioco nuovi e più profondi meccanismi sociali, comportamentali e relazionali che possono dar luogo, quando vengano utilizzati come strumento di nuova indagine e conoscenza, a più autentici e duraturi processi di riqualificazione del territorio e a cambiamenti culturali profondi, cosa quest’ultima che è di estrema importanza nei casi di progettazione di nuove aree abitative o di recupero di aree dismesse e di riqualificazione e ridisegno di aree periferiche o problematiche.

Daniel Buren attivo sin dagli anni ottanta, a proposito dei suoi progetti in pubbliche piazze del centro storico di Parigi o in aree dismesse o periferiche, sostiene che il suo lavoro “ non sta mai nel posizionare un oggetto ma nell’interrogarsi su un luogo e nel riproporlo come interrogativo”. Aprendosi come dubbio, come interrogativo, un progetto in uno spazio pubblico può avere anche un valore politico forte. Ero recentemente a New York, sulle tracce degli interventi realizzati nelle stazioni della metropolitana, a Central Park, a Battery Park o in altri spazi pubblici utilizzando i finanziamenti della legge dell’1% e ho potuto verificare che la maggioranza degli interventi non si distacca molto né dalle tecniche né dall’uso tradizionali: mosaici, miriadi di sculture di buffi omini disseminate un po’ lungo tutto il percorso, ma nulla che rinvii ad un movimento vitale che investa il pubblico in un ruolo non più di fruitore ma di attivo protagonista, che rimandi in qualche modo ad una specificità del luogo. E’ una concezione della bellezza che vuole “intrattenere”, “consolatoria” e socialmente e politicamente rappacificante, affiancata poi da una tendenza alla spettacolarizzazione che concentra tutto sull’intervento del grande artista, che riempie la piazza e porta turismo (il fatto però che due artisti  land art e di arte pubblica come Christo e Jean Paul ci abbiano messo dieci anni a ottenere un finanziamento,  in parte per altro privato, per un intervento che hanno fatto nel febbraio scorso a Central Park e fra non poche polemiche, la dice lunga).

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Sara Agustoli e Iacopo Cecchi (2005); Monika Stemmer, Arrivi-Partenze (2003), Alessandra Montanari, Creature interstiziali (2003).

N.D. Il progetto “Accademia in Stazione è stato allestito a Bologna per i motivi sopra indicati, ma potrebbe aver avuto sede in altri spazi pubblici (aeroporti, metropolitane, centri commerciali ed altri luoghi). Indipendentemente dai contenuti che legano l’evento alla nostra città e a questo determinato luogo, la vostra è senza dubbio un’operazione interessante perché ha portato opere artistiche dentro uno spazio che oggi si è soliti far rientrare (in modo semplicistico) nella grande famiglia dei “nonluoghi”, fortunato termine coniato dall’antropologo francese Marc Augè. Non credi che classificare con “nonluoghi” spazi de/per la collettività sia un termine oramai sorpassato, “troppo facile” nonché improprio perché tende a non riconoscere l’identità e le relazioni che questi “ambiti” hanno con il loro territorio di pertinenza? Non sarebbe più appropriato parlare di “iperluoghi” visto che al loro interno si possono vivere (simultaneamente) diverse “esperienze” – anche temporanee come ad esempio quella da voi proposta – che contribuiscono tra l’altro a creare inter-relazioni sociali, emozioni, identificazione ed appartenenza?

M.R. Proprio con questo intento è nato il progetto “Accademia in stazione”, come ti accennavo prima. Nell’introduzione al catalogo della prima edizione sottolineavamo: stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, autostrade, “nonluoghi” per eccellenza, secondo la ben nota definizione di Marc Augè. Luoghi di transito, di attraversamento veloce, di soste brevi, connotati da spazi di consumo di massa altrettanto anonimi ed esistenzialmente (antropologicamente) solitari: sale d’aspetto, biglietterie, pensiline dei binari, sottopassaggi, scompartimenti. Spazi sintomatici ed emblemi di ciò che le città sono diventate, stanno diventando in quest’ultimo scorcio di secolo, centri storici musealizzati… e tutt’intorno periferie-recinti, riserve di nuova e incontrollabile vita. E per l’arte non è facile uscire da musei e gallerie, suoi luoghi deputati, ed avventurarsi nella città, in un dialogo il più possibile vivo con gli spazi e con chi abitualmente li percorre, senza rischiare di slittare da una parte nel decorativo e dall’altra nel celebrativo, nel monumento che invece di rinnovare la memoria spesso la congela. Così non è stato certamente facile per i giovani artisti dell’Accademia di Belle Arti esplorare, ripensare ed intervenire in uno spazio come la stazione di Bologna, così omologato eppure così unico per le memorie tragiche di una ferita non sanata. Se l’arte ha da sempre avuto a che fare con la vita, coi suoi ritmi e le sue mutazioni ambientali e percettive, misurandosi con esse ed aprendosi ad una ricerca infinita, ebbene, molto semplicemente, come un gesto della vita i lavori di questi giovani artisti sono nati dalla frequentazione di un nonluogo come la stazione ferroviaria, rivisitato ora con una progettualità ludica ed utopica, ora attraverso l’esplorazione identitaria, ora attraverso ridefinizioni ambientali, ora attraverso l’uso delle tecnologie o con un ribaltamento defunzionale, ora con la riflessione sulla memoria  che mattoni, rotaie e massicciate hanno accumulato”.

Più o meno negli stessi anni, nel ’98 se non ricordo male, nasceva a Milano, l’esperienza di “Subway” interventi letterari, musicali e artistici nella metropolitana milanese, a cura, fra gli altri, di Roberto Pinto e, a Napoli, nel 2001, gli interventi di “riqualificazione attraverso la bellezza” nelle stazioni della metropolitana a cura di Achille Bonito Oliva. Nel 2000, lavorando ad un simposio internazionale di scultura urbana in collaborazione con l’Università di Paris 8, nel quartiere Saint Denis, con gli artisti Sandrine Nicoletta, Alessandra Andrini, Paolo Bertocchi, Vanessa Chimera, Sissi e Elisa Laraia, siamo intervenuti nel piazzale antistante l’ingresso della metropolitana, nell’atrio e nelle stazioni di metrò lungo la linea che da Saint Denis portava in centro. Per riprendere la tua osservazione sul termine “nonluogo”, direi piuttosto che è troppo abusato e banalizzato così da perdere la sua forza. Bisognerebbe smettere di usarlo come  un’etichetta o citazione d’obbligo fra chi si occupa di spazio metropolitano e non separarlo dalle analisi che sempre Augè fa del “surmoderno” caratterizzato dagli eccessi e dal bombardamento di immagini e percezioni, dalla non coesistenza e non integrazione dei nonluoghi (aeroporti, stazioni, autostrade, ipermercati, shopping mall eccetera), adesso  iperluoghi, con i luoghi della memoria, esistenziali ed identitari.

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Floriana Savarino, Cartaflora (2004), Michela Ravaglia, La casa di Adamo in paradiso (2005), Nat Wilms, Al di là del Volga per noi non c’è la terra! (2005), Linn Espinosa (2003).

N.D. Parlando dello specifico dei diversi allestimenti che si sono alternati in questi anni alla stazione di Bologna, che risposta avete avuto da un pubblico “mobile” come quello che solitamente abita la stazione?

M.R. Il pubblico, come ben si capisce dai discorsi fatti prima, è fondamentale perché produttore di senso. Alla stazione devo dire che il pubblico mobile, come lo chiami tu, in perenne flusso, che cambia a  seconda delle ore della giornata, se non è troppo distratto da certe sue occupazioni e pensieri che lo spingono alla totale impermeabilità e alza la testa e si guarda intorno, nella maggior parte dei casi si lascia coinvolgere, accetta di entrare da protagonista nelle azioni e nei progetti, partecipa. E’ per questo che sono convinta che certi progetti di arte pubblica possano innescare dei processi di “partecipazione” ( altra parola sulla bocca di tutte le amministrazioni senza però che si sappia ancora bene come metterla in atto) più autentici e duraturi di qualsiasi “forum” o “workshop” allargato alla città. E’ chiaro però che per accettare di partecipare bisogna che scatti una molla comunicativa, relazionale e quindi un riconoscimento: emozione, ricordo, divertimento, gioco, sorpresa, progettualità comune, identificazione e altro. Negli anni ’80 a New York un’opera di Richard Serra, “L’arco spezzato”, è stata smontata a causa delle proteste dei cittadini e di coloro che ogni giorno attraversavano quell’area. Placa de la Palmera invece, in un’area periferica dismessa di Barcellona, progettata sempre da Richard Serra dopo discussioni animate con gli abitanti del quartiere, a distanza di vent’anni è ancora lì, è uno spazio di riconoscimento e sembra anche che i due lunghi muri bianchi che la dividono in due non siano mai stati occupati  da scritte, murales o altro, e questo dovrebbe suggerire qualcosa  ad amministratori e urbanisti.

Un altro aspetto importante  quando si interviene in spazi non deputati è il lavoro preparatorio insieme a chi in quello spazio lavora e che non è certo abituato né tenuto a collaborare, cosa che invece avviene puntualmente in stazione nei giorni dei sopralluoghi precedenti la progettazione, e nel momento degli allestimenti. “Accademia in stazione” comporta e presuppone una rete di collaborazione e un coordinamento oltre che una rete di informazioni che né in un museo né in galleria sarebbero immaginabili. La stazione è uno spazio in cui c’è un controllo di sicurezza molto forte e la nostra manifestazione porta un po’ di scompiglio fra il personale (che è il nostro primo pubblico). Ma è uno scompiglio accettato da subito con grande entusiasmo e spirito di collaborazione da parte di tutti (dai dirigenti e dal personale della cooperativa facchini, dalla polizia ferroviaria, i ferrovieri, i vari tecnici). Sono certa, in fondo, che non sia soltanto l’effetto scompiglio ciò che in queste persone rimane bensì la consapevolezza di aver partecipato alla creazione, l’aver accompagnato, in progress, un’installazione o una performance di arte contemporanea che normalmente è qualcosa di distante, incomprensibile e lontana. E’ come se anche il lavorare insieme facesse maturare una “condivisione di responsabilità” che è proprio quello che rende un progetto di arte pubblica diverso dall’arredo o da una installazione ambientale, per quanto straordinari possano essere gli artisti che ci sono dietro. Basta intendersi sulla differenza, non equivocare e del resto l’uno non esclude l’altro.

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Allegra Corbo (2003), Antonello Paladino e Francesca Casolari, N’Diata (2004) Nichela Ravaglia, Adriatica (2004).

N.D. Ci puoi fare lo stato dell’arte pubblica in Italia e confrontarlo con esempi europei che potrebbero dare suggerimenti per lo sviluppo e la divulgazione di questo settore dell’arte nel nostro paese?

M.R. Sugli esempi europei ho già divagato prima, per quel che riguarda l’Italia bisogna dire che molto dalla metà degli anni ’90 si è cominciato a muovere grazie al lavoro di artisti e curatori che, come noi, hanno cercato e continuano a cercare di far sì che anche nel nostro paese questi interventi non vengano visti come divertenti o provocatori happening, ma cambi l’atteggiamento culturale da parte del pubblico e da parte delle amministrazioni per poter considerare l’intervento artistico in uno spazio pubblico o in un progetto urbanistico o di restauro più complesso ed articolato come uno strumento interpretativo e di cambiamento profondo e sedimentato. Penso a Roberto Pinto, a Bartolomeo Pietromarchi, a Bert Theis e Marco Vaglieri con OUT (Ufficio di Trasformazione Urbana) e il progetto “Isola dell’arte” a Milano, al gruppo a.titolo e al loro lavoro svolto nell’area di FIATMIRAFIORI a Torino e ai progetti con i comuni della cintura torinese, ancora in corso; a Emanuela De Cecco con il progetto “Zingonia” che ha coinvolto, in un lavoro con abitanti e comunità interculturali,  artisti come Luca Vitone.Penso ad un appuntamento come  Arte all’Arte che ogni anno da dieci anni riempie colline e piccoli paesi della provincia senese di installazioni contest specific, e che è arrivato quest’anno alla sua ultima edizione. Penso al lavoro di artisti ed architetti come il gruppo A12, Multiplicity,  Alberto Garutti (che per Arte all’arte ha per altro realizzato interventi molto belli e duraturi), Cesare Pietroiusti, Emilio Fantin, Annalisa Cattani, l’”osservatorio nomade” Stalker e al lavoro col quartiere Corviale a Roma, a molti degli artisti che con noi in stazione si sono formati e che ormai sono entrati nel circuito dell’arte contemporanea: Sandrine Nicoletta, Alessandra Andrini (cui si deve anche un bel progetto di intervento per il giardino della futura sede della GAM all’ex-forno del pane, di Bologna), Andrea Nacciarriti, Paolo Bertocchi. Fra questi mi inserisco anch’io con, fra l’altro, un progetto ancora in corso, “Cuore di pietra”, di lunga durata, che prevede molte fasi anche di collaborazione con altri artisti e con i cittadini di Pianoro, un paese della cintura bolognese nel quale sono appena iniziati i lavori di demolizione e ricostruzione del centro. Penso all’importante ruolo che hanno  per la riflessione sullo spazio metropolitano e per un continuo sconfinamento dell’arte nella città la Galleria NEON di Gino Gianuizzi,   la Fondazione Pistoletto CITTADELLARTE, Connecting Cultures  e  la Fondazione Olivetti.

Il problema però, e con questo concludo, è che nell’arte pubblica così come si sta configurando qui in Italia, anche perché disciplina giovane, ancora nulla può essere dato per acquisito una volta per tutte, perché si ha a che fare con un atteggiamento fortemente condizionato dai cambiamenti che avvengono nella realtà politica e amministrativa, nella gestione del territorio, con l’alternarsi dei governi e delle giunte comunali. E’ un terreno “soggetto a smottamenti” come tutto il nostro territorio e il nostro atteggiamento culturale: è interpretabile, si presta a troppo facili fraintendimenti, camuffamenti  e improvvisazioni; è strumentalizzabile e non si trasforma in patrimonio culturale, in un metodo consolidato, seguendo gli esempi di numerosi altri paesi europei.

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Luca Vitore, Seminario in stazione (2003).

 

Mili Romano (1953), docente di Antropologia culturale all’Accademia di Belle Arti di Bologna, artista. Si occupa di letteratura comparata e di arte contemporanea, in particolare nelle loro relazioni con lo spazio metropolitano. Ha pubblicato diversi saggi fra i quali: Città della Letteratura. Immagini e percorsi, Bologna, CLUEB 1996; aRITMIe. Ultime visioni metropolitane, Bologna, CLUEB 2003; Nuovi sguardi dall’arte pubblica in AA.VV. a cura di L. Gelsomino e P. Orlandi, Legge Sedici. Note a Margine, Bologna, Editrice Compositori, 2005. Suoi racconti sono apparsi sulla rivista in rete “Zibaldoni e altre meraviglie” (www.Zibaldoni.it).

 


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