Alla Biennale i padiglioni dell’Australia e Germania si aggiudicano a pari merito il “Leone di Bronzo”

© arcomaiI padiglione dell’Australia e Germania ai Giardini della Biennale.

Studi hanno dimostrato che il tempo medio che una persona impiega davanti a ciascun opera esposta in un museo va dai 15 ai 30 secondi. Si tratta di un modulo temporale sufficiente per rendersi conto di cosa l’immagine rappresenti, ma di solito non abbastanza per fare un’esperienza completa dell’opera stessa. A questa “Biennale in differita” – alias “La 17ma” – l’Australia e la Germania sono riusciti ad azzerare non solo il sopracitato tempo fisco di “interferenza” tra opera e fruitore ma anche la fisicità dello spazio espositivo – il medium fisico – mettendo in mostra nei rispettivi padiglioni solo il QR Code – il medium virtuale – che dovrebbe consentire di accedere ai contenuti di una mostra – che non c’è’. Una soluzione senza precedenti, che ha lasciato i visitatori attoniti, confusi per non dire offesi, costretti ad aggirarsi per le ampie sale del padiglione teutonico imbattendosi solo negli codici appiccicati sui muri, o sbattendo la faccia sulla porta chiusa d’ingresso di quello oceaniano.

Il Codice QR (Quick Response Code) – ovvero codice a risposta rapida – è uno strumento di mobile marketing nato nel 1994 in Giappone con lo scopo di tracciare i pezzi di automobili nelle fabbriche della Toyota. Questa combinazione a barre di forma quadrata e’ caratterizzato da una serie di moduli/quadratini neri distribuiti (in modo astratto) all’interno di uno sfondo bianco. Hanno una struttura complessa che essenzialmente consente loro di archiviare un alto numero di informazioni: un singolo crittogramma può contenere fino a 7.089 caratteri numerici o 4.296 alfanumerici. Per decodificare questi “francobolli tecnologi” basta utilizzare uno scanner tramite i software presenti su smartphone o tablet o in alternativa installando apposite apps sui propri dispositivi.

All’astrattismo della domanda/tema che il curatore della Biennale, Hashim Sarkis, ha proposto per questa edizione della Mostra Internazionale d’Architettura di Venezia – How will we live together? – l’Australia e la Germania hanno risposto in modo altrettanto astratto. La prima – con In|between – ha usato un “complemento di luogo” (virtuale) per veicolare una raccolta di lavori provenienti dal continente australe e dall’area del Pacifico “che rivelano con forza la capacità dell’architettura di rianimare ed esaltare la voce, l’identità e la cultura indigene”. Più provocatoria e’ invece la seconda che col titolo 2038. The New Serenity gioca con un “fattore tempo” proiettando le questioni del mondo al 2038, quando “i disastri economici ed ecologici globali del terzo decennio del 2000 hanno avvicinato la gente, gli stati, le istituzioni e le industrie. Insieme si sono impegnati per diritti fondamentali e hanno creato sistemi autosufficienti su base universale, fornendo alle strutture decentralizzate lo spazio per mantenere il proprio modo di vivere”. E cosi’ anche il problema dell’allestimento a Venezia e’ stato serenamente allontanato dal “centro” – fuori dai Giardini.

La proposta tedesca non può pero’ che porre una questione più seria. L’auspicata consapevolezza e riscatto dei popoli del 2038 sembra essere avvenuta attraverso un “avvicinamento” veicolato dalla fiducia “no ifs, no buts” per la “tecnologia portatile”, quella per intenderci che ha rottamato la vecchia “democrazia diretta” sostituendola con la “democrazia della accessibilità” per una Repubblica Mondiale dell’Algoritmo in cui una “società informatizzata” e’ considerata lo stesso emancipata non tanto perché tutti abbiano accesso ad una vita dignitosa ed equa, ma perché chiunque può accedere alle stesse cose, cioè alla rete delle informazioni, dimenticandosi che oggi – come tra diciassette anni – chi controlla la tecnologia controlla la libertà di tutti. Quando Marc Augé scrisse il celebre libro sui “non luoghi” (Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, 1996) non avrebbe mai pensato che da li’ ad un paio di decenni tutti i luoghi sarebbero diventati “antropologici” (cioè spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici) grazie ad un “non luogo” – il web.

Mai come oggi a causa del covid l’intera umanità ha vissuto negli stessi frangenti la medesima tragedia, a prescindere dalle condizioni sociali e geopolitiche dei singoli popoli. La pandemia si diffonde ovunque, come la rete. Questa pero’ e’ forse più infingarda del virus tanto da farlo variare a suo piacimento – sfuggendo al controllo della scienza – grazie ai miliardi di dati e informazioni diffusi interrottamente nella rete. La malattia non vincerà su di noi. Il vero problema è chi (quei tre o quattro colossi della rete telematica mondiale) oggi gestisce le nostre tracce online e dell’uso che se fa. Il cosiddetto distanziamento sociale, che da un anno e mezzo stiamo subendo, esisteva già prima. Non e’ una conseguenza dell’epidemia. Mi riferisco al decentramento antropologico dai luoghi antropici delle relazioni; il resto e’ solo smarterizzazione di massa. Non ci hanno fatto andare nei musei per un anno e poi, quando ci rechiamo, troviamo un codice QR ad aspettarci. Stanno succedendo cose strane durante questo periodo. Lo stare in luoghi chiusi, obbligati a navigare su internet, sta intossicando le menti libere. E allora, aprite i padiglioni e date aria. Nel frattempo – noi di Arcomai – ci siamo permessi di premiare a pari merito con la palma speciale del “Leone di Bronzo” i sopracitati due paesi per la “faccia di bronzo” con la quale si sono presentati a Venezia. Bisognerebbe istituire una commissione d’inchiesta per capire come questo sgarbo sia potuto accadere, e valutare un “embargo culturale” per i trasgressori.

© arcomai I padiglione dell’Australia e Germania ai Giardini della Biennale.


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