Dove non c’è un tetto c’è’ sempre una storia da raccontare

© arcomai I Memorie di una principessa araba di Zanzibar..

Esiste qualcosa nell’uomo che lo lega al luogo più di qualsiasi altro essere di questo pianeta. La vita di Emily Ruete, la Principessa Sayyida Salme (1844–1924) figlia del sultano di Zanzibar che visse a cavallo tra gli ultimi due secoli dello scorso millennio, conferma la regola. Emily scrisse un libro autobiografico dal titolo Memorie di una principessa araba da Zanzibar (1986), descrivendo la propria vita a corte e documentando tra l’altro il Palazzo di Beit el Mtoni, la dimora dove nacque e visse i primi anni della sua travagliata vita. Quest’opera oltre ad avere un grande valore storico e’ anche un documento straordinario ed unico nel suo genere perché racconta la vita delle monarchie di Zanzibar e Oman, in un periodo in cui la lettura consentita alle donne era limitata al Corano.

Il palazzo era l’edificio omanita più antico dell’isola di Zanzibar, oggi declassato a rudere. Salme era figlia di Sayyid Said (1804-1856), sultano di Zanzibar e dell’Oman, e della concubina circassa Jilfidan. Suo padre confisco’ il fabbricato nel 1828 al suo proprietario, il Monsieur bin Haramil Al-Abry. Questi era un mercante originario dell’Oman che aveva violato il Trattato di Moresby (1822), sottoscritto per l’appunto dal sultano e da Fairfax Moresby, alto ufficiale delle Mauritius per conto della Gran Bretagna, che sanciva l’abolizione della tratta degli schiavi. Assistito dal figlio maggiore Sayyid Khalid (1819-1855), il sultano fece ampliare la residenza trasformando il complesso al rango di corte regale.

Dopo un’infanzia trascorsa nel palazzo in cui era nata, si trasferì con la madre a a Beit el Watoro, nella residenza del fratello e futuro sultano Majid ben Said. Nel 1853, a causa dei frequenti conflitti con la cognata, le due donne si trasferirono a Beit el Tani, un’altra dimora del sultano. Nel 1856 il sultano muore e Salme eredita un palazzo e una piantagione di chiodi di garofano, di cui Zanzibar divenne il maggiore centro di esportazione dell’Oceano Indiano. . Da li’ a poco muore anche la madre e cosi’ le vengono assegnate altre proprietà terriere. In questo periodo Zanzibar diventa un Sultanato indipendente. Mentre Thuwaini ibn Said al-Said, uno dei numerosi fratelli di Salme, diventa sultano dell’Oman, Majid diventa quello di Zanzibar.

© arcomai I Vista interna del Palazzo di Beit El Mtoni.

A causa di diatribe interne alla famiglia per motivi di potere, la donna si trasferisce nel 1866 a Mji Mkongwe, l’odierna Stone Town. Li’ incontra Rudolph Heinrich Ruete, un uomo d’affari tedesco con cui ebbe una relazione che le costo’ una condanna a morte per lapidazione da parte di suo fratello Majid, perché la donna rimase incinta. Fu cosi’ costretta a scappare con l’uomo che diventerà suo marito, Dopo diverse vicissitudini nel 1868 raggiungono Amburgo dove si stabiliscono. Nel 1870 Rudolph muore. Nel frattempo il sultano confiscò tutti i beni di Salme. Furono anni difficili per lei e la sua famiglia che nel frattempo si era allargata.

Salme non smise mai di pensare alla sua terra natia, Nel 1885, grazie all’intervento di Otto von Bismarck, riusci’ ad organizzare una visita a Zanzibar con i suoi figli. Giunta a destinazione ritrovo’ l’affetto degli abitanti del posto – con grande disappunto del sultano – che le mostrarono rispetto consono ad una principessa, sebbene fosse scappata e avesse cambiato identità, status sociale e religione Dopo alcuni mesi trascorsi nell’isola, Emily e i suoi figli tornarono in Germania dove nel 1886 concluse e pubblico’ la sua autobiografia.

Pianta generale del Palazzo di Mtoni e ricostruzione 3D del complesso (fonte: “Architectural family ties, Zanzibar and Oman in the 19th century” ad opera di Antoni Folkers e Frank Koopman).

Il complesso e’ composto dall’edificio originario a pianta quadrata (appartenente al mercante di schiavi) e da due corpi aggiunti successivamente dal sultano: ad est l’ala dei “bagni persiani” e a nord l’ala con il portico e le camere da letto, a formare una pianta generale (anch’essa “quadrata”) con al suo interno un ampio cortile ad “elle”. I muri esterni sono di circa 70 cm di spessore in pietra di corallo tipica delle case di Stone Town. Tale profondità era basata sulla tradizione costruttiva dell’Oman che prediligeva edifici “robusti” per garantire un’elevata stabilità ai carichi orizzontali, ma anche per proteggere i suoi abitanti dal freddo invernale e dai nemici. Lungo il suo sviluppo perimetrale la muratura era ritagliata al suo interno da alte nicchie o “rawzanah”, che avevano lo scopo di ospitare finestre ed armadi, ma anche di ridurre l’uso del materiale.

Gli arabi avevano di certo portato con se’ l’uso della copertura piana. Tale soluzione pero’ non si prestava al clima di Zanzibar. L’accumulo di calore attraverso l’esposizione al sole tropicale e alle infiltrazioni causate dai frequenti piogge torrenziali erano incompatibili con quel tipo di tetto. Entro la fine del XIX secolo praticamente tutti gli edifici di Stone Town sarebbero stati coperti con i tradizionali tetti a falda rivestimenti in “makuti” (foglie secche di palma) e successivamente (dal primo ‘900) rimpiazzati da pannelli corrugati portati dai colonizzatori europei. Si presume pertanto che solo l’area dei “bagni persiani” era rimasta a tetto piano o coperta da un sistemata di cupole.

© arcomai I Vista interna del Palazzo di Beit El Mtoni.

La Ruete nelle sue memorie parla di un’insolita struttura rotonda in corrispondenza dell’ingresso dal lato spiaggia. Da precisare che la famiglia si spostava principalmente per mare e non via terra. Si trattava probabilmente di una struttura a portico a pianta quadrata al piano terra e terrazza al piano superiore con copertura a falde a pianta ottagonale. Tale copertura e’ nota come benjile, una sorta di pagoda in legno probabilmente abbellita da decorazioni ed intarsi. Sempre secondo Emily, questo manufatto era interamente dipinto. L’etimologia di benjile potrebbe essere correlato al “barjil” dell’Oman, al “badgir” della Persia e al “bardiyya” degli Emirati Arabi Uniti che significa “torre del vento”. Infatti lo scopo del benjile era quello di raffreddare l’edificio facendo passare la brezza. Questa costruzione doveva essere il luogo più piacevole come confermato dalla principessa. Era direttamente adiacente alle stanze private del sultano e forse il luogo a lui preferito per osservare la sua flotta, ritirarsi per lavorare, forse anche a pregare e sicuramente prendere un caffè con la famiglia.

Del palazzo oggi e’ rimasto poco o nulla, sebbene si pretenda di considerarlo ancora un edificio storico invece di mere rovine abbandonate. Tutto ciò che si poteva pendere e’ stato portato via. Fino alla meta’ del secolo scorso i Britannici lo utilizzarono come luogo di stoccaggio per carburante per poi diventare da li’ a poco deposito di cementi durante il periodo della rivoluzione (1964); e questo fino agli anni ’80 nonostante dal 1957 l’immobile fosse nella lista degli edifici da tutelare secondo il “Decreto sulla conservazione dei monumenti antichi” operativo dal 1924. La rampa di terra in corrispondenza dell’ingresso dove prima sorgeva il benjile testimonia l’uso industriale dell’immobile. Se non fosse per l’amore intrinseco che la Principessa Sayyida Salme ha portato con se’ tutta la vita riguardo al luogo in cui era nata e da cui si era dovuta separare, oggi non si saprebbe neppure che qui sorgeva il Palazzo di Mtoni.

© arcomai I Vista interna del Palazzo di Beit El Mtoni.

NOTA

Parte della ricostruzione storica del Palazzo di si e’ basata su uno studio dal titolo “Beit el Mtoni the house at the creek” ad opera di Gerrit Smienk e Antoni Folkers dell’organizzazione di consulenza no-profit African Architecture Matters con sede ad Amsterdam (Olanda).


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