Aaron Betsky ha sparato alle spalle di Philp Johnson e poi si e’ nascosto dietro lo “online shaming”

Johnson never directly referred to himself a fascist, but he wrote for fascist magazines and, with a colleague at the Museum of Modern Art, started a neo-fascist party, the Young Nationalists, in 1937. He also aligned himself with the rabidly right-wing radio priest Father Charles Coughlin and designed a stage set for one of his rallies in 1938, which he based on Albert Speer’s work for Adolf Hitler. Johnson even traveled to Nazi Germany, sending back rapturous reports of the new society Hitler was building.”

(Aaron Betsky in Architect ,11/12/2020)

Nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione mondiale, il principio della libertà di parola è diventato il fulcro di una guerra culturale e politica che si muove in modalità globale attraverso una rete di canali più o meno attendibili e trasversali. Una guerra che sembra non risparmiare neanche l’architettura, disciplina da sempre esposta a critiche e strumentalizzazioni. Un tempo ce la si prendeva con gli edifici singoli definiti “brutti” o incompatibili con i gusti generalisti del momento; ora si punta il dito direttamente all’architetto con l’obiettivo di screditarlo o boicottatalo anche attraverso l’oramai consolidata “cancel culture” (“cultura della cancellazione”) made in USA – ovvero quella tendenza, diventata molto diffusa in rete, tesa a rimuovere dalla produzione culturale persone o imprese considerate colpevoli di aver manifestato (anche in passato, o con presunte singole azioni personali) comportamenti controversi od “oltraggiosi” o, semplicemente, perché non allineati al “politicamente corretto”.

A farne le spese questa volta e’ stato Philp Johnson (1906-2005) – noto maestro americano dell’architettura del secolo scorso nonché primo Premio Pritzker nel 1979 – per mano di Aaron Betsky (docente e critico dell’architettura) che un paio di giorni fa (dalle pagine della rivista Architect) ha inneggiato con un articolo intitolato “Why We Should Cancel Philip Johnson” alla rimozione del nome dell’archetto di Cleveland “da ogni titolo di leadership, spazio pubblico e titolo onorifico di ogni forma”. Secondo il professore, Johnson sarebbe stato da giovane un simpatizzante nazista e pertanto soggetto ad una “damnatio memoriae” con la quale ottenere (anche se tardiva) giustizia.

It is time to cancel Philip Johnson. In fact, it’s long overdue.” Con questa frase il critico ha iniziato la sua arringa. Ed e’ proprio col termine e fattore “tempo” che l’autore ha dato a noi spunto per commentare questo suo contraddittorio pensiero. Quindi, a 15 anni dalla scomparsa di Johson, Betsky scopre o si sente in dovere di denunciare i suoi passati scomodi. Ok! No problem! Come si suol dire; e’ libero di dire la sua. In realtà accuse dettagliate sugli orientamenti politici del giovane (non ancora architetto) Philip erano già emerse nel 2018 con la pubblicazione del libro The Man in The Glass House, scritto dal critico d’architettura Mark Lamster. Con la denuncia sulle pagine de Architect, invece, l’esegeta si espone incoscientemente ad un’auto-critica nei riguardi della suo attacco proprio a causa dell’uso delle parole “time” e “overdue”. Infatti, e’ proprio la seconda delle due (“ritardo”) che depotenzia il valore della prima (“tempo”). Confessare il rinvio di un’azione mancata può vanificarne l’efficacia. Ma questo incidente temporale forse non e’ cosi rilevante. Per noi e’ importante il fattore tempo inteso come “causa” temporale del valore “morale” di un comportamento, dal termine latino moralis, derivante da mos, moris (costume). Il senso morale di un individuo o di una società cambia nel tempo. E’ quindi difficile misurare la morale con i parametri della contemporaneità. Se Betsky ne fosse stato consapevole forse avrebbe articolato il suo querelle in modo più lucido e convincente.

© Stacy Bass I The Glass House di Philp Johnson a New Canaan (Connecticut).

La sicurezza nel denunciare le colpe del “malfattore” sembra indebolire per non dire mettere in imbarazzo il suo ragionamento quando si sente in dovere di ammettere l’importanza che ha avuto la figura di Johnson per l’architettura – per evitare di “buttar via il bambino con l’arqua sporca” – senza spiegarne pero’ i valori favorevoli. E qui si arriva al tema più interessante di questo caso letterario. Può esistere una relazione tra i comportamenti, i pensieri e le vicende umane di una persona (architetto o artista in questo caso) e le sue opere? E nello specifico, esiste una rapporto tra la Glass House di New Canaan (Connecticut), progettata al ritorno dai suoi viaggio in Europa negli anni ’30, e le sue sue simpatie per la Germania di quel tempo? Betsky sembra crederlo ma (a mio avviso) lo fa in modo prevenuto e manipolatorio per avvallare una tesi forzata con evidente fine denigratorio: “Il fascino di Johnson per il fascismo, in altre parole, era profondamente intrecciato con la presentazione della sua stranezza, ed è facile capire i grandi gesti del suo periodo postmoderno, come la Republic Bank a Dallas o l’AT & T Building a New York, come versioni “pederaste” (cosi’ si può traduce la parola “queered” usata dall’autore) di un’estetica fascista. Persino la Glass House, con la sua apertura forzata che contrastava con la caverna del sesso nascosta nel sottosuolo, sa del lato sadomaso del fascismo.” Parole che non necessitano commento.

La Casa di Vetro, realizzata nel 1949, e’ considerata il capolavoro di Johnson nonché pietra miliare dell’architettura moderna. Qui vi mori’ nel gennaio del 2005. Concepita come una scatola trasparente (16.5m × 9.75m x 3.2m) poggiata su un podio rettangolare di 160mq. La “pianta libera” genera un open space arredato in modo da essere suddiviso in tre zone (pranzo, giorno e notte) senza alcun setto. Unico elemento solido e’ il volume cilindrico in mattoni che contiene su di un lato il bagno e sull’altro il camino. La divisione tra interno ed esterno è affidata a semplici pannelli di seta che scorrono verticalmente lungo delle guide fissate alle pareti vetrate. Ogni facciata ha al suo centro una porta che funge da diaframma cardinale tra interno ed esterno. La struttura è retta da pilastri d’acciaio che, integrati con le vetrate, si confondono con i montanti delle finestre. Soluzione compositiva questa diversa da quella adottata da Mies van der Rohe per la casa Farnsworth (Chicago, 1945) – che gli servi’ da ispirazione – in cui i pilastri d’acciaio con profilo ad “H” sono volutamente espressi come elementi portanti.

Sono questi particolari tecnici che rendono quest’opera manifestazione di una “mente libera”, nuova se non addirittura “sovversiva” con la quale l’architetto propone una nuova e sfacciata “moralità” della dimensione domestica, intesa qui come spazio aperto, trasparente, mobile – un luogo dove non nascondersi se non addirittura esibire la propria intimità. Questa non e’ una casa per una famiglia tradizionale americana del tempo ma per un uomo “singolo”, libero e anticonformista; manifesto di una diversa “prospettiva” di società che l’America all’epoca non poteva dare o non era ancora pronta a farlo. Se non fosse mai andato in Europa, non solo non avrebbe forse mai realizzato quella casa e lui come architetto di livello intenzionale, ma non avrebbe convinto Mies van der Rohe a lasciare la Gemania per gli Stati Uniti e la storia dell’architettura avrebbe avuto altre cronache.

Chissà se Betsky sia a conoscenza del fatto che il ventenne John Fitzgerald Kennedy compì nel 1937 un lungo viaggio di formazione in Europa documentato in scritti in cui, colui che ventiquattro anni dopo sarebbe diventato il più amato presidente degli Stati Uniti, esprimeva giustizi di simpatia ed elogio per il regimi totalitari in Italia e Germania? (vedi “John Kennedy. In mezzo ai tedeschi. Diari e lettere 1937-1945” di Oliver Lubrich, 2013). Ci può essere un filo che lega gli “errori di gioventù” di Kennedy e Johnson? Anche loro (come tutti gli Americani) avevano vissuti tempi difficili: il crollo della Borsa di New York nel ’29 con strade e piazze piene di operai in sciopero e disoccupati in cerca di lavoro; le lunghe file di fronte alle mense popolari; le misure di Franklin D. Roosevelt per tentare di risollevare il Paese dalla lunga recessione in cui stava precipitando l’America. La democrazia liberale era ancora adatta ad una società che sarebbe stata dominata dalle masse? Era possibile trarre qualche insegnamento dell’esperienze antidemocratiche in Russia, Italia e Germania? Mai come negli anni Trenta i giovani furono chiamati a fare scelte a volte difficili modificando profondamente le condizioni “morali” delle società’. La morale e’, infatti, l’insieme dei valori o principi ideali in base ai quali l’individuo e la collettività decidono liberamente la scelta del proprio comportamento. Tali valori si originano dalle condizioni politiche e sociali, si riferiscono all’organizzazione economica e giuridica, si rifanno alle tradizioni di una collettività e quindi mutano nel loro percorso storico.

Giorgio Vasari, citando Paolo Uccello (1397-1475) nelle sue “Vite”, parla dell’artista fiorentino come di una persona folle dedita ad “indagare sui complicati meccanismi e le strane opere d’arte prospettiche” [..] “per le quali considerazioni si ridusse a starsi solo e quasi salvatico, senza molte pratiche, le settimane e i mesi in casa senza lasciarsi vedere.” Quelle stranezze ammiccate dall’autore sembrano voler svalutare il valore pionieristico di un visionario che con l’applicazione spesso “surreale” o “idiosincratica” dei punti di fuga (e quindi più prospettive in uno stesso dipinto) riproduceva un “ordine nuovo” rispetto a quello imposto della prospettiva “centrale” o di regime – che andava bene a Vasari e suoi committenti – anticipando di mezzo secolo la rivoluzione cubista. Cio’ e’ accaduto anche perché Paolo Uccello era a cavallo tra due mondi figurativi (il Rinascimento ed il Gotico Internazionale). Jhonson e Kennedy in modo diverso si trovarono sospesi tra due “mondi morali” a cui a modo loro hanno provato a disegnare prospettive possibili.


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