100 torri possono fare una “città” ma non una “civitas”

© arcomai I Il cortile di Campo della Tana.

Anche quest’anno (dodicesimo per l’esattezza) Hong Kong ha partecipato alla Biennale di Architettura di Venezia, che in questa 16ma edizione ha come tema “Freespace” allo scopo di porre l’attenzione dell’architettura nei riguardi di ogni forma di “Spazio libero” che lega la vita delle persone ad un determinato luogo. Qui il luogo espositivo e’ sempre lo stesso, Campo della Tana di fronte all’Arsenale; mentre il titolo della mostra e’ invece: “Vertical Fabric: density in landscape”, L’installazione curata dal Prof. Weijen Wang (insieme a Thomas Chung, Thomas Tsang e Grace Cheng) e’ stata pensata con un’attitudine banalmente scolastica e tutta asiatica – quella delle “options” – traducibile in: “Più opzioni mi dai e più facile e’ per me scegliere la migliore” – da cui il sottotitolo: “100 Towers, 100 Architects”. In realtà la “fabbrica verticale” e’ una selva di 111 modelli progettati da 94 architetti di Hong Kong più i restati 17 sviluppati da un team di guests stranieri. Tutte le torri (in scala) sono alte 2 metri e poggiati su una base di 36cm.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

In sintesi, il tema proposto in questa edizione della Biennale si e’ dimostrato per Hong Kong una “trappola”. Qui il progettista mette a nudo l’incapacità della (propria) disciplina a proporre nuove aspirazioni per una società che (in ambito di alta densità) vive essenzialmente in una condizione cronica e forzata di solitudine, indifferenza ed individualismo. Una “society in pixels“, di milioni di persone dipendenti e persi dentro la giungla dei divices vari, tenuta insieme dal “legante” della densità che ingloba tutto e tutti; e dove gli uomini, rappresentati nei modelli in scala, sembrano formiche felici, quando le formiche sono sempre felici semplicemente perché si muovono ininterrottamente mentre le guardiamo da lontano.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

Hong Kong, dove ho vissuto e lavorato due anni, sembra aver perso l’indole innovativa che l’ha distinta nel passato. Infatti, schiava della (sua) verticalità, ora non riesce a far altro che celebrala come unica “possibilità di città, mentre le “variazioni sul tema” ottengono solo la (de)monumentalizzazione del tipo (la torre). I resto sono solo equivoci linguistici come l’uso del termine landscape (in quota) – che qui dovrebbe funzionare da freespace (in quota) – con evidente confusione da parte del visitatore che fa fatica ad individuare una “sintesi d’intenti” utile a fargli comprendere il significato propositivo dell’iniziativa.

Il cosiddetto free space di Hong Kong e’ qui una condizione privata (perché pertinente ai soli inquilini dei grattacieli), verticale e mono-uso. Uno spazio sicuramente limitato poiché dettato da percorsi predefiniti, obbligati ed obbligatori. In alcuni progetti e’ proposto come piano frammentato (se non addirittura di risulta), inclinato, diagonale, sospeso; un livello in bilico che presume uno stato precario, vertiginoso ed effimero, incompatibile con quelle dinamiche comportamentali primarie dell’essere umano in spazi aperti e a “quota zero”. Inoltre lo “spazio libero” e’ qui una “bugia” in termini poiché non e’ contemplato “liberamente” dalle logiche dettate dal GFA (Gross Floor Area) – che e’ il “deus ex machina” del mercato edilizio. Tutti i professionisti, operanti nel mercato asiatico, lo conoscono bene perché lo hanno tatuato nel loro “design operandum”; e come tale sanno che in questo business non sono previsti “metri-quadri in libertà” che possano determinerebbe una perdita di profitto da parte dell’investitore.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

La cosa più interessante di questa mostra e’ ciò che non si vede. Mi riferisco alla base delle torri, un anonimo cubo bianco di circa dai 30 ai 60cm d’altezza si cui poggia il modello architettonico. Nella realtà “costruttiva” quel volume esiste fisicamente ed in gergo progettuale (in inglese) viene chiamato podium, termine latino (inappropriato) per identificare un edificio con sviluppo (in media) dai 3 ai 8 piani (di cui solitamente il 30% e’ interrato), su cui si poggia la torre e che all’interno del quale si trovano parcheggi, aree tecniche e di stoccaggio, BOH (Back of House) ma soprattutto spazi commerciali perché direttamente accessibili dalle stazioni metropolitane sotterranee. Per chi lavora in Asia il podio e’ forse una delle cose più difficili da progettare perché implica conoscenze tecniche (fire-fighting, M&E, way-finding, …) che vanno oltre a quelle prettamente compositive.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

A corredo della cerimonia d’apertura della mostra sono state organizzate due sezioni talk. La prima si e’ tenuta in mattinata con la presentazione dei progetti in esposizione da parte degli autori; e la seconda nel pomeriggio in forma di forum, a cui hanno partecipato i curatori insieme ad alcuni progettisti e relatori esterni. Di questa iniziativa non abbiamo nulla da registrare a parte la banalità dei temi proposti dal moderatore e la noia dei interventi. Della precedente si riporta solo la dichiarazione di un’architettrice di Hong Kong la quale, introducendo la sua proposta, ha dichiarato: “..la torre da’ sicurezza alle persone”. Un’affermazione “medioevale” che tradotta in modo contemporaneo vuol dire: “Il free space (pubblico) mi fa talmente paura, che me lo faccio io a casa mia!”.

Negli anni ’20 del secolo scorso, El Lissitzky ideo’ una nuova tipologia di grattacieli: gli Wolkenbügel o “Appendinuvole” – torri orizzontali sospese su tre piloni per una altezza di 50 metri. Gli edifici (tutti uguali e in numero di 8) erano pensati per essere realizzati a Mosca e collocati a corona in corrispondenza dei maggiori assi viari della città, dovevano fungere da porte urbane “avanguardiste” d’accesso. Per l’architetto russo l’essere umano non vola, bensì cammina e, pertanto, il muoversi orizzontalmente è l’unica condizione umana naturale. Inoltre per lui una tale struttura (sospesa ed orizzontale) garantiva non solo una migliore ventilazione ma anche un’assegnazione egualitaria dei piani migliori, fattori non sempre compatibili con le logiche speculative dell’edilizia contemporanea.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

Tra i tanti progettisti che dal postmodernismo ad oggi hanno preso spunto (a volte in modo superficiale) dalle visioni del noto costruttivista russo, il più “intelligente” e’ senza alcun dubbio Steven Holl che con il complesso Vanke Centre di Shenzen (la megalopoli oltre confine ad un’ora di treno da Hong Kong) e’ riuscito ad esaltare il “freespace” semplicemente liberando lo spazio a “quota zero”, che e’ la naturale dimensione pubblica del suolo pertinente ad un edificio. Il mancato podio (“volume zero”) che i 100 architetti si sono dimenticati di progettare e’ stata – senza alcun dubbio – l’occasione mancata per sperimentare la possibilità di riportare gli Honkong-niani a terra, ad una dimensione non solo più “free”, dove le diversità “umane” delle torri si possono incontrare per creare un senso di civitas, ma di rilanciare la “densest cities” come laboratorio progettuale che non subisce il tempo ma lo valorizza.

© arcomai I L’installazione – “Vertical Fabric: density in landscape”.

 

 

 


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