La visione distorta di Yi Hwan Kwon ti fa capire l’architettura alterata

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© arcomai I Jang Dok Dae (mono).

Esisteva un edificio a Quarry Bay (tra King’s Road e Hoi Chak Street) che anni fa veniva utilizzato come deposito di tabacco. Era un luogo dal quale si diffondeva un fortissimo profumo che, nelle giornate di vento, invadeva tutto l’isolato per poi propagarsi lungo la costa settentrionale dell’isola di Hong Kong (tra North Point e Tai Koo). Sono in pochi oggi a ricordarsi dell’odore che spigionava quel fabbricato e tanto meno di come questo fosse fatto; una torre ad uffici ha sepolto il tutto sotto di se’. Questa torre e’ il Kerry Centre, un moderno e anonimo grattacielo di vetro in cui ha sede una compagnia che si occupa di proprietà immobiliari. Meno anonimo e’ invece il suo atrio. Il ricco proprietario, investendo qualche centinai di migliaia di dollari, lo ha trasformato in una galleria con opere di diversi artisti. Tra queste abbiamo riconosciuto un gruppo di statue del coreano Yi Hwan Kwon, che alla fine del 2009 si fece conoscere per la prima volta da queste parti con una mostra, allestita presso le Pao Galleries dello Hong Kong Arts Centre, dal titolo Scenes from Memory.

Per chi entra dall’ingresso di King’s Road e’ inevitabile imbattersi nel Man Gazing at the Distance. La sagoma di un uomo di almeno sei metri d’altezza che da ogni punto la si guardi mostra sempre lo stesso profilo, dandoti la sensazione che ti segua con lo sguardo. Per chi invece usa l’accesso da Hoi Chak Street, il visitatore e’ accolto da due gruppi di statue, denominate con lo stesso nome Jang Dok Dae (mono), facenti parte di una stessa nota serie/famiglia di statue anche se qui divisa in padre, madre con bambini ed in una coppia di adulti.

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© arcomai I Man Gazing at the Distance.

La particolarità di queste opere e’ la rappresentazione di corpi deformati (allungati o schiacciati). Per chi le vede per la prima volta queste possono ricordare la proiezione tridimensionale di un’immagine distorta da una lente, il riflesso di un corpo all’interno di una stanza degli specchi, altrimenti l’illusione ottica ricavata da un programma di foto-ritocco o da una delle tante “divertenti” apps che girano nei tablets e simili. Il lavoro di Yi Hwan Kwon e’ senza alcun dubbio il frutto di una ricerca complessa unita ad una rigorosa fattura plastica. Uno stile che senza alcun dubbio e’ influenzo o/e ispirato da altre forme della creatività come la letteratura e il cinema.

L’effetto per chi si imbatte per la prima volta in questi “esseri” e’ di profondo senso di stupore e smarrimento. L’osservatore e’ invitato a ri-esaminare le relazioni consolidate/naturali tra spazio, dimensione e prospettiva. Cosi’ ti abbassi, ti allunghi, ti contorci per trovare un punto di vista che ti faccia riconoscere il soggetto e capire la causa che ne ha determinato la sua trasformazione. Si tratta di figure familiari composte secondo una prospettiva non familiare, capaci pero’ al tempo steso di generare una comunità nuova, una società diversa, un senso “altro” di umanità. Sembra che tutto sia accaduto pochi attimi prima, poiché le azioni dei soggetti sono ancora nitide, normali, spontanee. Il peso, la gravita’ o altre forze occulte sono i fattori meccanici spiegabili della distorsione, ma non bastano a giustificarne i motivi di tale falsificazione. In questo processo di indagine potresti farti convincere (per un attimo) che quella e’ “la dimensione”, che quelli sono i parametri e che tu sei potenzialmente parte di dinamiche di vita nuove. Ti sforzi di capire e in qualche modo ti modifichi. Non sai chi sia l’alieno, ma senti un senso di alienazione. E’ questo sentimento che ti avvicina a loro.

Il colore nero con cui le statue sono ricoperte diventa un mezzo unificante, il fattore che nell’accentuare gli effetti plastici, ne definisce una specie. L’illuminazione accidentale dell’atrio ti fanno anche pensare ad ombre e come tali forme mutevoli difficili da controllare, perché sempre diverse, indipendenti, sfuggevoli. Il fatto poi che queste siano tridimensionali dona loro un senso di vita e quindi l’immaginazione di un paesaggio in cui vivere, un mondo costruito, diverso dal quello nostro, che forse ha subito lo stesso destino. Chissà se questi esseri stiano girando per il mondo in cerca di “casa”. Forse loro non lo sanno ma l’architettura contemporanea e’ ricca di forme strane, di “cose” alterate in cui loro potrebbero vivere. Se raggruppate potrebbero definire un “luogo altro” di un “altro mondo”. Io attraverso spesso l’atrio del Kerry Centre. Qui le statue convivono in modo disinteressato con gli umani. E loro fanno lo stesso.

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© arcomai I Jang Dok Dae (mono).

 


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