Venice’s Road Map for Korea: Venezia – Pyongyang passando per Seul

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana.

Il Padiglione della Corea è l’ultima struttura espositiva realizzata ai Giardini della Biennale di Venezia. Sebbene sin dalla sua costruzione (1995) l’edificio porti il nome di una “sola” Corea, senza distinzione tra i due paesi facenti parte dell’omonima penisola, solo quella settentrionale ha partecipato alla kermesse veneziana a partire dal suo esordio. Dopo settant’anni dalla divisione della penisola coreana in paesi, la controversa realtà geo-politica dei due stati fornisce anche sul piano architettonico un esempio lampante e al tempo stesso paradossale di un dualismo politico e culturale nato dagli errori di una guerra più grande delle due parti coinvolte: due sistemi politici ed economici opposti, costantemente raccontati dai media come nazioni in perenne contrasto/conflitto che mantengono – dopo cosi’ tanto tempo – un intricato e difficile rapporto tra loro ed il resto del Mondo. Il ruolo dell’architettura – e rispettivamente quello delle due capitali – è stato determinante a consolidare questo antagonismo: se Pyongyang rimane una delle poche testimonianze reali di una città – costruita da zero – interpretando le aspirazioni di una società comunista; Seul ha, invece, materializzato gli ideali di un mondo globalizzato ispirato a politiche di libero mercato.

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana.

La Corea del Sud si e’ aggiudicato, lo scorso sabato, il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Il progetto dal titolo “Crow’s Eye View: The Korean Peninsula” e’ stato apprezzato “…per la straordinaria capacità di presentare un nuovo corpus di conoscenza sull’architettura e l’urbanistica, in una situazione politica particolarmente delicata. Grazie all’utilizzo di diverse forme di rappresentazione, che facilitano l’interazione, è stata avviata una ricerca che supera i confini dell’architettura e guarda alla realtà geopolitica”, come ha riportato Francesco Bandarin, uno dei membri della giuria. Il premio – che dovrebbe essere con-diviso con la Repubblica Popolare Democratica di Corea (DPRK), protagonista “involontaria” del successo del padiglione – e’ stato commissionato a Minsuk Cho (architetto nord coreano e fondatore dello studio Mass Studies) che, come co-curatore (insieme ai connazionali Hyungmin Pai e Changmo Ahnl), ha allestito una mostra sulle opere e progetti di entrambe le due Coree, realizzando cosi’ la “Prima Mostra di Architettura della penisola coreana”. Cho ha spiegato alla cerimonia d’apertura come da subito abbia tentato di coinvolgere i colleghi del nord chiedergli in più occasioni (in via epistolare) di collaborare al progetto. Purtroppo ciò non e’ avvenuto. Infatti, nessuna risposta (neppure negativa) e nessun supporto e’ pervenuto da parte loro. Solo i mediatori stranieri che vivono e lavorano da anni in questo Paese hanno contribuito a raccogliere informazioni e documenti utili alla mostra. Ironia della sorte, sebbene per i Coreani del Sud sia molto difficile avere rapporti diretti con i “cugini” del Nord, è relativamente facile per chi proviene da altre parti del Mondo visitare la DPRK ed instaurare relazioni e rapporti commerciali con Pyongyang.

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana.

La mostra prende il nome da una poesia scritta nel 1930 da Yi Sang, un architetto coreano influenzato dal movimento dadaista morto tre anni dopo all’età’ di soli 24 anni. Quest’opera è l’emblema della visione naive di una generazione che aspirava ad un’architettura e società moderna, un sentimento che era impossibile realizzare sotto l’allora dominio coloniale giapponese. In senso più ampio, per la natura del materiale esposto, questa installazione rappresenta anche la visione multi-prospettica della complessa realtà coreana che in qualche modo sancisce anche l’impossibilità di una comprensione coerente dell’idea stessa di architettura: “Ognuno è come un uccello, che ha il loro proprio eye view“, ha affermato Cho alla celebrazione d’apertura del padiglione. Infatti l’allestimento propone una gamma variegata di documenti raccolti da un gruppo multidisciplinare scelto dai co-curatori e composto da 39 collaboratori (architetti, urbanisti, poeti, scrittori, artisti, fotografi, registi, curatori e collezionisti) per dimostrare (al meglio delle loro disponibilità, dal momento che la cooperazione ufficiale con le istituzioni coreane del Nord – come si e’ detto – si sono dimostrate irrealizzabili) le similitudini e divisioni architettoniche tra Nord e Sud Corea. Cosi’ il padiglione non vuole e non può essere una presentazione completa e equilibrata sull’architettura delle due Coree, ma tenta di offrire al visitatore diverse prospettive attraverso le quali poter capire ed interparete le molteplici fattori alla base delle “culture” coreane.

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana. Il lavoro dello studio  Mansudae Overseas.

L’installazione e’ essenzialmente divisa in quattro sezioni: La prima, denominata “Ricostruire la vita”, è in gran parte basata sulla fotografia e mette a confronto (in parallelo) lo sviluppo di Pyongyang e Seul dopo la guerra di Corea. La seconda sezione “Lo Stato monumentale” affronta il tema della monumentalità ovviamente marcando i due contrastanti modelli politici. A parte la grandiosità degli edifici di Pyongyang, salta all’occhio il lavoro artistico prodotto da Manudae Art Studio. Questo atelier – cresciuto sotto la “guida speciale” dal “Caro Leader” (Kim Jong-iI, governatore del paese) finché fu in vita (1994) – e’ stato fondato nel lontano 1959 ed oggi da’ lavoro a circa 4.000 persone, tra cui 1.000 artisti, tutti formatisi all’Università nazionale, impiegati nelle diverse discipline dell’arte (xilografie, disegni, dipinti ad olio, ricami, gioielli…). La sua divisione estera è nota come il nome di Mansudae Overseas che disegna e realizza statue monumentali principalmente in Africa.

 La terza sala parla dei confini Nord/Sud – i borders più mediatici e più militarizzati del mondo. Nel bel catalogo che fa supporto alla mostra, il visitatore pio approfondire in modo dettagliato la storia di queste linee di separazione che, a causa della ambiguità delle clausole all’interno dei trattato, hanno generato molte ambiguità e confusioni sul piano territoriale e diplomatico. La quarta sezione, denominata “Viaggi Utopistici” e’ curata da Nick Bonner, il co-fondatore della società Koryo Group con sede a Pechino, che da una ventina d’anni organizza escursioni turistiche in Corea del Nord. Questa sala comprende il fumetto dal titolo “Un giorno di un architetto” e di una serie di immagini commissionate ad un disegnatore sud coreano (anonimo) per immaginare il futuro del paese. Se ne evince che il futuro dell’architettura assomiglia molto al “futuro di ieri”, dove i turisti viaggiano in camper e i lavoratori vivono in alberghi a forma di ziggurat immersi nella natura.

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 © arcomai l Il padiglione della penisola coreana. Plastico del Sewoon Sangga.

All’ingresso del padiglione troviamo in tutta la sua “candida” monumentalità un plastico del Sewoon Sangga. La mega-struttura, realizzata a Seul nel 1966, e’ la testimonianza/testamento di un’epoca passata, di una visione del moderno rappresentativa di una cultura che andava oltre quella architettonica. Il complesso – lungo oltre 1 km – è infatti la materializzazione di una sezione urbana dove strade, flussi, servizi ed attività commerciali e di intrattenimento si fondono in una sola unità. Sewoon Sangga si pone come l’antitesi a gran parte dell’architettura contemporanea polimorfa attualmente in fase di sviluppo a Seul cosi’ come nel resto del Mondo, dove la sua neutralità strutturale, piuttosto che il “formalismo iconico” oggi in voga ovunque, ha generato uno dei più importanti e contraddittori “casi urbani” della storia moderna: questo dinosauro di cemento è diventato un camaleonte programmatico capace di fondere e cambiare i suoi cromosomi architettoniche per adattarsi a qualsiasi “scenario” possibile. Non a caso il plastico e’ stato collocato al centro dello spazio espositivo per demarcare non solo i confini geografici della penisola coreana ma anche i periodi storici che la caratterizzano.

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 © arcomai l Il padiglione della penisola coreana. Plastico del Alborz Housing.

Autore di questo complesso e’ Kim Swoo Geun (1931-1986). Suoi sono altri plastici in mostra come la il progetto per la Alborz Housing (1976), lo Space Group of Korea Building (1977), e la Chiesa di Kyung Dong Church (1980). La presenza di questi progetti ci fanno capire che il “moderno” in Corea del Sud e’ passato attraverso questo protagonista. Infatti, considerato anche come lo “architetto di stato”, e’ senza alcun dubbio una delle figure più importanti del 20° secolo non solo per la Corea del Nord e non solo per l’architettura, avendo giocato un ruolo fondamentale nel rilancio culturale della Corea e della sua metamorfosi socio-economica.

Formatosi in Giappone, Kim, dopo aver vinto nel 1961 il concorso per il Palazzo dell’Assemblea Nazionale, decise di tornare a Seul e fondare il proprio studio di architettura, Space Gruppo di Corea. Il suo ritorno coincise con lo sviluppo del moderno processo di industrializzazione del paese e quindi della “moderna” architettura coreana. Tra le oltre 200 opere realizzate ricordiamo anche la Hill Top Bar Pavilion (1961), il Freedom Center (1963), il Korea University Hospital (1963), il Korea Times Building (1965), il Kyung Dong (1980), e lo Stadio Olimpico (1984). Nel 1966, Kim ha fondato ‘Space’, la prima rivista mensile per la ricerca e critica delle arti. Sede di Kim a Seoul, il Space Group of Korea Building (1997) è stata la fonte della attività culturale e un punto di riferimento per creativi di tutte le arti. Percependo le limitazioni dello “assorbimento” – per usare un termine caro a Kolhass – dei modelli puramente occidentali da una parte e le pressioni del nazionalismo politico/patriottismo dall’altro, Kim ha sviluppato il proprio concetto d’architettura interpretando le mutevoli condizioni e aspirazioni della Corea del dopoguerra e riscoprendo, durante un percorso critico anche sofferto, il misticismo del paesaggio e dell’estetismo coreano. Abbandonando il brutalismo degli anni ’70 ha iniziato a sviluppare un approccio al progetto più attento allo spazio ed in particola alla scala umana, alla tattilità, all’uso dei materiali utilizzando in modo sempre più sperimentale forme irregolari e materiali terrosi, come il mattone.

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana.

Se parte della mostra e’ inevitabilmente incentrata sulla figura di Kim, la sezione della Corea del Nord non e’ rappresentata dal lavoro di un proprio alter ego. Poiché all’architetto della DPRK è dato il compito di costruire una società socialista, gli architetti non sono celebrati come autori del proprio lavoro, che è invece accreditato al capo dello Stato. Sono proprio gli autori “invisibili” di questa architettura che danno alla mostra un tocco di mistero. La professione di un progettista in questo paese e’ diversa dal resto del Mondo. A parte la censura del governo e la carenza di libri e riviste di architettura che molto incidono nella professione dei progettisti, la loro più grande limitazione è la mancanza di materiali di qualità e conoscenza delle moderne tecniche di costruzione. Ciò li porta a lavorare con calcestruzzo e barre di acciaio e mattoni. Tale carenza viene pero’ colmata con la creatività del progettista nell’uso di qualsiasi materiale a sua disposizione. Sebbene solo recentemente architetti ed ingegneri abbiano iniziato ad utilizzare il CAD per la progettazione, la loro forza creativa e’ nelle tecniche di rappresentazione tradizionali che li porta a illustrare i loro progetti con disegni a mano, dipinti e gouache. Questa grande capacita’ comunicativa e’ stata per decenni alimentata dalla propaganda di partito che ha sempre ambientato lo spirito e lo ottimismo del comunismo all’interno della rappresentazione del processo di costruzione del paese.

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© arcomai l Il padiglione della penisola coreana. Posti di guardia sul confine tra le due Coree, 2006 – 2007 Alessandro Belgioioso.

Se Seul e’ rappresenta per edifici, Pyongyang primeggia nelle foto (anche queste anonime) per la pianificazione urbana dettata dalle linee del governo. La capitale fu interamente distrutta durante la Guerra di Corea (1950–1953) e poi ricostruita con enormi viali, monumenti imponenti e grandiosi edifici monoblocco grazie anche agli aiuti finanziari dellURSS che non a a casa contribui’ a dare una forte impronta “neoclassico-sovietico’ all’architettura di quegli anni. Negli anni 1960 e 1970 la storia politica cambiò e con essa gli edifici incominciarono ad ispirarsi alla tradizione coreana con i caratteristici tetti a falde. Sebbene – come si e’ detto – ogni progetto in Corea del Nord sia un progetto di governo e quindi non ci sono edifici privati, oggi, ci sono, tuttavia, diversi progetti stranieri che stanno modificando lo skyline della capitale.

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Il padiglione della penisola coreana. Immagine di propaganda della Repubblica Popolare Democratica di Corea (autore anonimo).

Indipendentemente dal risultato della giuria che ha assegnato il prestigioso premio alla partecipazione della Corea, questo padiglione e’ uno dei pochi che sia riuscito a rispondere allo “ambiguo” tema Absorbing modernity rivolto da Rem Koolhaas ai partecipanti internazionali di questa edizione della Biennale. La surreale situazione dei due paesi ci da’ un’idea di come la cosi’ detta “modernità” più che essere stata “assorbita” – termine non certo felice – sia stata altresì matrice di sperimentazione e cambiamento in questo caso di due mondi diversi, opposti e confinati. L’Unicità “spaccata” della penisola coreana sta nei suoi vacui confini quotidianamente “violati” in modo consensuale dallo “esercito del business”: l’economia supera la politica e generare una nuova realtà geografica. Questa geografia non e’ rilevata nelle mappe ma e’ già la “linea guida” di una road map per una eventuale riunificazione.

La storia dei due Paesi ci insegna che il rinnovamento di una società passa anche attraverso la “visione” di pochi uomini che, anche se inspirati da punti di vista contrastanti, sono riusciti a creare attorno a loro un ambiente in grado di con-dividere e realizzare un mondo “nuovo” per tutti. Purtroppo, Seul sembra aver trascurato questo aspetto a favore di un arbitrario “nuovo” che è diventato sinonimo di una cultura del “qualsiasi cosa è accettabile” basta che appari “simply new”. Seul ha da tempo superato i propri confini nazionali per condividere insieme ad altri la “frontiera” della globalità all’interno della quale l’architettura sembra capace solo di percepire il quotidiano ma non le sue alternative. L’isolata Pyongyang, dal canto suo, esporta in tutto il mondo modelli Made in DPRK della sua monumentalità perché il vecchio e’ sempre “moderno” se e’ “per tutti”.

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© arcomai l Hyungmin Pai, Alessandro Belgioios, Minsuk Cho, Nick Bonner e Ahn Chang-mo all’apertura del padiglione della penisola coreana.


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