Per il Signor Wang Shu il futuro della città non porta da nessuna parte

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© arcomai l Peter Ho, Chairman Urban Redevelopment Autority, l’architetto Wang Shu, Narayana Mutrthy Chairman emeritus Infosys e il Prof. edward Glaeser.

Qual’è’ il futuro delle città? Come città innovative possano rimanere tali? Come le città dovrebbero governarsi? Qual’è il ruolo della tecnologia? Con queste domande ha avuto inizio il forum, dal titolo Technology and Governance in an Innovative City, che si e’ tenuto questa mattina presso l’Hotel Fullerton Hotel di Singapore. Il dibattito, organizzato dal Lee Kuan Yew Centre for Innovative Cities in collaborazione col The Centre for Liveable Cities (CLC) ha avuto come moderatrice la Signora Chan Heng Chee, presidente del Centro Lee Kuan Yew che, dopo una breve introduzione sulle finalità dei due enti promotori, ha posto le quattro cruciali domande ai suoi ospiti: Narayana Murthy, presidente della Emeritus of Infosys (India), il prof. Edward Glaeser della Università di Harvard (USA), Peter Ho Hak Ean, presidente della Urban Redevelopment Authority Advisor e Centre for Strategic Future di Singapore, il Prof. Wang Shu, cofondatore insieme a Lu Wenyu dello Studio Amateur Architecture (Cina) nonché The Pritzker Architecture Prize 2012, il più prestigioso riconoscimento internazionale in campo progettuale.

 Il primo a parlare e’ stato Narayana Murthy che, dopo aver riportato gli ormai risaputi dati riguardanti le previsioni di crescita della popolazione e relativa urbanizzazione su scala mondiale fino al 2050, ha spiegato come alla base di questo processo vi sia sempre l’aspirazione da parte di persone “povere” di migliorare il proprio stato economico. Il relatore ha poi aggiunto che, sebbene la rivoluzione digitale con la banda larga contribuisce alla democratizzazione delle società e l’informatizzazione tecnologica aiuti la governance nel facilitare la gestione delle infrastrutture, la privacy dei cittadini viene inevitabilmente limitata. Si constata come Senza citare il destino delle aree abbandonate e l’impatto a livello ambientale.

Peter Ho Hak Ean ha aperto il suo intervento spiegando le condizioni di unicità di Singapore che “…Non e’ solo una città, ma anche uno stato e e un’isola”. Ha poi ripercorso in breve la storia di questo Paese dall’anno della sua indipendenza (1965) ad oggi. “…48 anni fa molte persone erano scettiche perché questa nuova condizione politica avrebbe avuto effetti sull’assetto economico, culturale e sociale”. Riguardo alla propria condizione geografica ha poi spiegato come l’essere isola può essere molto svantaggioso se non si ha accesso diretto alle acque internazionali. Cosi Singapore ha dovuto trasformare svantaggi iniziali in occasioni di sviluppo non solo per una città ma anche per uno stato: come lo quello di un moderno sistema infrastrutturale, edilizio e di sicurezza nazionale.

Per Ho Hak Ean le fondamenta per rende un paese efficiente e’ la buona governance: “Questa e’ la sola garanzia per una città vivibile ed efficiente. La buona governance e lo sviluppo innovativo vanno insieme. Una cattiva governance non ferma l’innovazione ma la rende sporadica ed non sostenibile”. Parlando poi di tecnologia ed innovazione ha aggiunto: “La tecnologia non e’ alla base dell’innovazione ma solo un supporto a questa. Le soluzioni innovative cambiano col tempo, pertanto c’è bisogno di di una struttura di pianificazione pensata a lungo termine. Quando si costruisce una città attorno alle tecnologie bisogna mettersi nelle condizioni di adattarsi periodicamente a nuove esigenze. Per un’isola il problema dello spazio e’ una questione seria. Noi l’abbiamo affrontato sviluppando in altezza e portando sotto terra quei servizi che li potevano andare. In conclusione una buona governance per la città innovativa deve avere: una forte leadership a tutti i livelli, una politica pragmatica, una buona pianificazione e una visione a lungo termine. Bisogna mettere le persone prima della funzione e la funzione prima della forma”, ha cosi’ chiuso il suo intervento. Un bel discorso che pero’ ha risparmiato il tema scottante contenuto nella Population White Paper, un programma governativo che prevede la duplicazione della popolazione entro il 2030.

Il Prof.  Glaeser ha parlato principalmente del rapporto tra l’evoluzione della città e tecnologia nel Nord America senza particolare rilevanza per i temi di nostro interesse.

Chiude la serie di interventi il Prof. Wang Shu che da subito apre il suo discorso con questa affermazione: “I Cinesi sono molto orgogliosi del loro Paese, delle loro città e dei loro villaggi che li hanno sempre visti sotto forma di paesaggio pittoresco e poetico. Abbiamo, nondimeno, imparato dalla natura, e il villaggio e’ la sua espressione. Il concetto di villaggio e’ molto diverso da quello europeo. Le persone sono bene istruire e anche se le case sembrano modeste, i villaggi sono ben gestiti e la popolazione non e’ povera. In Cina esiste un conflitto tra città e villaggio. Bisogna tenere in considerazione la storia e l’ambiente dei villaggi. Il livello di cultura nei villaggi e’ superiore rispetto a quello delle città’”. A supporto di quando detto, Shu ha preso come esempio la foto di un villaggio cinese accompagnata da questa affermazione: “Qui si può riconoscere la bellezza e la qualità di vita, condizioni queste che non si possono trovare a Singapore”. Qualcuno dalla sala accenna ad una risatina a denti stretti. Da queste parti non e’ solito sentire qualcuno che metta in discussione la perfezione della città/stato asiatica. Poi il nostro prosegue il suo ragionamento aggiungendo: “I Cinesi hanno un forte senso di adattamento e sopravvivenza. Loro possono vivere in qualsiasi luogo diverso da quello originario rispettandolo la propria cultura”.

Prendendo come esempio una foto di Pechino “moderna” ha aggiunto: “La cultura cinese e’ cambiata. Le persone sono passate da un contesto comunitario ad uno di isolamento all’interno dei loro appartamenti. Sembra che chi abbia ideato questi luoghi si sia ispirato ad un’architettura europea basata sul concetto di prigione. Siamo dei prigionieri resi felici dagli intrattenimenti. La città ha perso la propria identità e caratteristica e ciò accade in tutto il mondo. Specialmente nei paesi asiatici ci siamo concentrati sul GDP (Gross Domestic Product, il nostro PIL) a scapito della nostra cultura” […] La Cina di oggi sembra molto simile a Singapore. L’architettura deve prendersi la responsabilità, e non credo che questa debba essere ceduta alla tecnologia”.

Parlando poi del suo lavoro ha spiegato: “Devo sempre superare il conflitto tra ciò che e’ vecchio e ciò che e’ nuovo e trovare un compromesso tra i due. Molte persone pensano che guardare al passato sia facile ma in realtà non e’ cosi’. Non e’ facile pensare al passato. Guardare al passato e’ più difficile che pensare al futuro. Qui a Singapore il governo pensa di preservare gli edifici credendo di tutelare la traditone ma in realtà ciò non avviene. Salvare il passato e’ più difficile che salvare il futuro”. La sala ammutolisce e la moderatrice si mostra insofferente, guarda più volte il suo orologio per poi invitare il nostro a chiudere. Accolto l’invito con un sorriso sarcastico, il nostro, ha conclude cosi’ il suo intervento “… Il mio lavoro e’ basato su esperimenti. E’ importante avere una visione per il futuro, e’ importante sapere cosa e’ importatane e cosa non lo e’”.

Lui non e’ venuto qui per promuovere il suo studio ed accattivarsi qualche facoltoso imprenditore locale. Il suo e’ un messaggio forte, polemico, provocatorio che in qualche modo non solo non risponde “conformemente” alle domande poste dal forum – che presuppongono repliche strutturate e strutturali – ma nega l’importanza della governance, della economia e della tecnologia come soluzioni per migliore la qualità’ dell’ambiente abitato. Se risposta si vuole trovare, l’architetto chiede di cercarla nel continuo dialogo tra tradizione e modernità che e’ cosa ben diversa da ciò che classifica la sua architettura come “sostenibile” solo perché fa uso di materiali di riciclo. Tale risposta e’ in realtà’ una domanda: “Dove stiamo andando?”. A tal proposito, anche se Shu non lo nomina direttamente nella sua presentazione, per chi lo conosce vengono in mente la Nuova Accademia d’arte di Hangzhou e il Museo di storia di Ningbo (Cina): un manufatto, quest’ultimo, per la cui costruzione Shu ha utilizzato oltre una ventina di diverse tipologie di mattoni e tegole, recuperati dalle demolizioni circostanti secondo la pratica secolare del “wa pan”, un metodo costruttivo estremamente veloce che i contadini cinesi impiegavano per ricostruzioni urgenti dopo le distruzioni provocate dalle calamita’ naturali. Cosi si può dire che i materiali usati non possono più invecchiare ma solo rigenerasi per dar vita a nuove “case” senza tempo , profondamente radicate nel loro contesto socio-culturale. 

Come e’ noto, per il professore il problema dell’architettura professionale e’ che si pensa troppo agli edifici. Lui costruisce “case” e non “edifici” poiché’ la  casa e’ più vicina alle necessita’ della nostra vita. L’umanità e’ più importante dell’architettura cosi come l’artigianato e’ più importante della tecnologia. Non sorprende apprendere che l’architetto, in gioventù, abbia lavorato per una decina di anni a fianco diretto di artigiani cinesi per acquisire la conoscenza e manualità nella costruzione pratica, specializzandosi in particolare nella lavorazione del legno, uno dei suoi materiali da lui più amati ed utilizzati. E’ qui che risiede la vera bellezza dei suoi lavori; e’ qui che si  riconosce la poeticità del suo fare. In Italia lo abbiamo conosciuto per la prima volta alla 10a. Biennale di Architettura di Venezia (2006) con l’istallazione Tiled Garden, una falda di tetto, composta da tegole ricavate da costruzioni demolite, su cui si può camminare ma fini ad un certo punto oltre il quale si deve decidere se continuare o tornare indietro. E’ un frammento fisico di alta poesia che, come tale, ti lascia intimamente toccato perché ti fa riflettere sulle esigenze profonde dell’uomo ed quindi evocare evocare suggestioni ed emozioni che non sempre un edificio ti può dare.

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© arcomai I Il Tiled Garden, realizzato da Wang Shu alla 10a. Biennale di Architettura di Venezia (2006).


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