Architetture contemporanee per Bologna: 9 domande ad Andrea Trebbi

Lo studio di progettazione ANDREA TREBBI ARCHITETTO con sede a Bologna festeggia quest’anno i suoi primi 30 anni di attivita’.Oscar Ferrari Nicola Desiderio della redazione di arcomai.it hanno incontrato Andrea Trebbi, fondatore dello studio (www.andreatrebbi.it), per conoscere il suo lavoro ed essere aggiornati sullo stato dell’arte dell’architettura a Bologna.

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© oscar ferrari_arcomai l Edificio ex cinema-teatro Apollo in Via G. B. Melloni, Bologna, 2004-2008.

RESOCONTO

Oscar Ferrari & Nicola Desiderio Nel 2006 e’ stato pubblicato Andrea Trebbi / 1980-2005 Architetture (Editrice Compositori), un libro che raccoglieva i tuoi primi 25 anni di professione. Lo scorso Ottobre e’ stata inaugurata, presso la sala espositiva di SIMON / Spazi per le Idee a San Lazzaro di Savena (BO), una mostra sui trent’anni dello studio ANDREA TREBBI ARCHITETTO. Con queste due iniziative hai sentito il bisogno di fare un resoconto del tuo lavoro? Quali sono le conclusioni/traguardi? Da dove ripartirai?

Andrea Trebbi No no, non sono state iniziative generate dall’esigenza di fare resoconti in corso d’opera! Semplicemente stavo accorgendomi che si parlava ‘solo’ di alcune mie opere, quelle, per collocazione, facilmente visibili. Sai, nell’ambiente architettonico la popolazione esita a vedere quel che si vede, figurati se riesce a vedere ciò che è in seconda linea! Poiché però la gran parte di quanto ho realizzato è collocata proprio in seconda linea, o in luoghi ‘da cercare’, ho presuntuosamente ritenuto che potesse contenere qualche significato la procedura divulgativa delle mie opere e dei miei progetti. Affinché venissero scoperte!

Nessuna conclusione e nessun traguardo…Ho valutato temporalmente opportuno promuovere la diffusione mediatica del mio lavoro (prestazione peraltro praticatissima nell’attualità da parte di chiunque), anche in quanto contemporanea, nel caso del libro monografico, alla costruzione del mio sito informatico; successivamente, il grado di intensità di questa diffusione sarà dipendente dal fattore eventualmente qualitativo dei miei prossimi progetti/opere e/o dall’interesse che altri vorranno manifestarmi in tal senso.

Continuerò ad esercitare il mestiere come se la porta della divulgazione non fosse mai stata aperta.
SCUOLA

OF Ti sei laureato nel 1979 a Firenze con Graziano Trippa, quando all’epoca insegnavano personaggi come Leonardo Ricci, Mario Zaffagnini e Gianfranco Caniggia. Cosa ricordi di quegli anni, e cosa ti hanno lasciato?

AT Ho l’attitudine ad apprendere tramite la prova personale. Ho preparato pochissimi esami in gruppo alla facoltà di architettura, così come, dopo, non ho mai condiviso il mestiere con nessuno. So di isolarmi dal contesto quando sostengo che il progetto d’architettura è un esclusivo esito della cultura individuale! Le lezioni in aula, le letture, gli ascolti,…possono talvolta sedurmi, ma purtroppo mai mi penetrano per radicarsi. Debbo partorire, non possono raccontarmela… Quindi del mio periodo quinquennale universitario, svolto da pendolare, non ho particolari ricordi né di Caniggia né di Ricci, i cui rispettivi corsi di Composizione Architettonica 5 e Urbanistica 1 peraltro frequentai, mentre ho vivissima la memoria di Mario Zaffagnini, il cui insegnamento considero tra tutti il più significativo. Soprattutto da Mario, e in parte anche da Trippa, mio relatore di tesi, ho assunto gli importanti requisiti operativi del metodo e dell’applicazione, non a caso, caratteri più comportamentali che culturali.
AUTOSCUOLA

OF Chi scrive o parla di te tenta sempre – e a volte in modo inappropriato – di trovare delle parentele tra il tuo modo di disegnare l’architettura e quello di altri architetti che, tra l’altro, provengono da contesti ambientali e generazionali molto lontani dai tuoi. Pubblicamente hai citato Frank Lloyd Wright, Rafael Moneo e Richard Meier come tue figure di riferimento. Ci puoi spiegare in quali termini? Dove li ritroviamo nel tuo lavoro? A parte ciò, mi e’ sempre piaciuto pensare che tu sia essenzialmente un autodidatta?

AT Si, assolutamente credo di potermi recensire autodidatta proprio per quell’attitudine all’apprendimento che mi ha riguardato. Contrariamente a molti altri, non ho mai pensato di indagare con specificità l’opera di nessun architetto. Tanti, quanto meno limitatamente ad alcune fasi della loro esperienza, sono stati in qualche modo sedotti, da Aalto, da Le Corbusier, da Kahn, …, o attualmente dai decostruttivisti. Personalmente trovo invece che tutti i bravi architetti, non solo questi esempi, abbiano giovato alla disciplina architettonica e provo a visitare dal vero ogni opera che desta il mio interesse, indipendentemente dalla notorietà del suo autore. Pensa che ho visitato tutte le opere europee di Libeskind per farmi invano una ragione del successo decretatogli. I nomi che hai citato sono quelli che mi è in effetti capitato di menzionare in relazione all’ammirazione che per essi provo: ma sono solo 3 tra i tanti che ammiro. Avrei potuto aggiungere Tadao, Chipperfield, Piano, Herzog e De Meuron,….oltre ad una grande quantità di meno noti. Tra i celebri, forse il lavoro della coppia di Basilea   – gli unici che riescono a trasgredire, smentendomi, la formula della singolarità nell’esercizio del mestiere – risulta il più eclettico, nel senso che le loro opere sono scarsamente riconoscibili o catalogabili rispetto a quelle di altri; in questa connotazione, peraltro, indugio a riconoscermi, perché se non fosse per una certa prevalenza del color bianco che caratterizza alcune mie prestazioni peraltro volumetricamente dissimili, credo di divulgare un repertorio non omologabile.
LAVORO

OF Scorrendo nel tuo sito i nomi dei collaboratori che in questi tre decenni si sono susseguiti nel tuo studio, notiamo che in media la loro permanenza e’ durata poco più di un paio di anni. Ci puoi spiegare il perché?

AT Gli architetti che entrano nel mio studio sono generalmente alla loro prima esperienza lavorativa dopo il conseguimento della laurea. Ho sempre prestato fede a questa prerogativa per non essere costretto a riscontrare la loro preparazione eventualmente inquinata da successive forme di apprendimento che avrei potuto non condividere.
Ad eccezione di una bravissima collaboratrice che da 25 anni mi accompagna e che è assolutamente appagata dalla forma professionale collaborativa, tra gli altri casi, peraltro alcuni esemplari, nessuno ha generalmente inteso prestare lungamente la propria quotidianità alla presunta ‘monotonia’ del tecnigrafo prima e del computer oggi. Il laureato in architettura soggiace al latente e legittimo richiamo di ‘fare prima o poi l’architetto’, pure se la realtà in ogni parte del mondo non può consentire a tutti i laureati in architettura di fare gli architetti in modo autonomo. Il primo motivo per il quale dopo qualche tempo generalmente ci si allontana dagli studi è quindi per ‘guardarsi intorno’; e questo è accaduto sovente anche nel mio.
In second’ordine, influisce il mio alto grado di esigenza qualitativa che persevero a verificare su me stesso prima che sugli altri; pure se all’inizio di ogni rapporto di collaborazione l’indulgenza prevale, successivamente le eventuali, ma diffuse, condizioni del collaboratore di ‘crescita lenta’, o di ‘credere scarsamente negli obiettivi’ dello studio, o della ritrosia ‘a sbattersi’, rappresentano le cause che possono avere intercettato talvolta la continuità.
Infine, decisiva diventa sovente la necessità, pure questa legittima, dell’avanzamento economico richiesto dal collaboratore, condizione che la disciplina architettonica, la cui pratica è altamente suscettibile di alterazioni dipendenti da varie cause, non sempre può tollerare per tutti i collaboratori impiegati in uno studio; e a questo proposito non rinuncio mai ad affermare che il mestiere dell’architetto richiede all’origine una capacità economica estranea al riconoscimento delle parcelle e che, contrariamente all’esercizio di altre professioni, fare l’architetto potrebbe paradossalmente non migliorare, infine, quella capacità economica d’origine.

La mia attesa sulla preparazione dei nuovi collaboratori è sempre alta e su questo argomento debbo amaramente constatare come la qualità dell’insegnamento universitario nel recente decennio sia decisamente peggiorata.

Lo studio si occupa esclusivamente della ‘disciplina architettura’ e si basa sul lavoro di 4 architetti. Ogni architetto elabora e segue autonomamente un progetto (personalmente giudico l’elaborazione contemporanea di più di 3 progetti difficilmente controllabile in modo efficace). La caratteristica del grado di importanza del progetto genera la decisione sul suo esecutore all’interno dello studio. Il lavoro che invece personalmente svolgo è di impostazione progettuale e di continua revisione degli elaborati prodotti; non di rado il progetto definitivo trasgredisce l’originaria impostazione data.
Oltre a rapportarmi con committenti e Istituzioni, eseguo la direzione dei lavori o la direzione artistica di ogni nostro progetto e tendo a frequentare quotidianamente ciascuno dei cantieri che ci riguarda (l’unica prestazione che può garantire l’eccellenza del risultato….).  Lo svolgimento delle discipline collaterali al progetto architettonico viene invece svolta presso altri studi.

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© oscar ferrari_arcomai l Casa in via del Meloncello, 2004-2007.

BATTAGLIA

ND Quelle poche volte che ti ho sentito parlare in pubblico sono sempre venute fuori le due  questioni  correlate  del degrado made in bo e della tua personalissima lotta per la “difesa dell’architettura”,  anche sotto le Due Torri. Della prima questione credo che si tratti di un malinteso. O il “grande nemico” di Bologna non esiste, e questo mi fa dire che ciò che tu chiami degrado e’ un lusso, o la città non sa come trasformare il “grande male” in risorsa. Riguardo invece alla “difesa dell’architettura” abbiamo bisogno di inquadrarne il senso. Tanto per capire di che cosa si parla, ci puoi fare intanto l’identikit di ciò’ che tu chiami “degrado” e dirci se conduci questa battaglia per l’architetta con altri e con quali strumenti?

AT Il degrado e ‘la difesa dell’architettura’sono aspetti assolutamente complementari o addirittura interdipendenti che non appartengono solo a Bologna.
Considero il degrado dell’ambiente architettonico come una mostruosa condizione che ci ammorba perché il degrado, non importa sotto quale forma si manifesti, impedisce alla popolazione di accedere alla disciplina dell’architettura e conseguentemente impedisce agli architetti di manifestare la propria opera.
In tutti i luoghi, deve esistere una soglia elementare, o di tollerabilità della condizione qualitativa dell’ambiente architettonico, oltre la quale diventa possibile ‘fare architettura’; questa soglia è differentemente posizionata in relazione alle aree geografiche (la soglia scandinava è ben più alta della soglia italiana).
Come può la collettività interessarsi all’architettura quando l’asfalto stradale o il piano dei marciapiedi è ovunque sconnesso? O quando la segnaletica è disposta negligentemente? O quando l’imbrattatura è un dato assorbito dal paesaggio? O quando le modalità del vivere in città sono dipendenti dall’automobile? O quando la trascuratezza imperversa?
La ‘difesa dell’architettura’ non è la difesa di quel che è già stato costruito! Tutt’altro! E’ la difesa della qualità del lavoro di chi sta pensando al nuovo, al futuro! “E’ nel futuro che mi interessa vivere”, non è una dichiarazione ad effetto che sta proferendo un numero sempre crescente di persone, bensì è una realistica ed irrinunciabile constatazione. E l’elaborazione qualitativa del progetto architettonico calato in un contesto ambientale inquinato dal degrado è una pratica impossibile da svolgere e da condurre dignitosamente.
Quindi l’impegno categorico comune deve essere debellare il degrado o alzare il livello della soglia!
Combatto questa battaglia sostanzialmente da solo, comunicando a chiunque e utilizzando ogni forma mediatica come e quanto bisognerebbe immediatamente fare.
Pensa, peraltro, che la mia convinzione è che l’architettura sia importante quanto la medicina, nel senso che, purtroppo inconsapevolmente, la popolazione in un ambiente architettonico degradato vive male, ovvero accumula patologie -non solo comportamentali- che, nel tempo, possono aggravarsi.

 

CASA’ Vs CITTA’

OF Il tuo studio lavora principalmente nel settore  del  residenziale privato, dell’alberghiero e dell’assistenziale-sanitario-riabilitativo. Possono delle belle case private cambiare la città e il suo modo di vedere le cose? Cosa manca a Bologna per valorizzare l’architettura e chi la fa?

AT No, le belle case non possono cambiare la città! La città, in ogni parte del mondo, si modifica attraverso la cultura di chi la amministra e di chi la abita! Quindi la città italiana può iniziare un percorso di crescita se, per esempio, si modifica il suo rapporto con l’auto privata e con la mobilità, o se si attuano la bonifica e la riorganizzazione degli spazi pubblici, o se si utilizza la risorsa-sottosuolo,… Per fare ciò occorrono Amministratori innamorati dei luoghi che governano, ma soprattutto occorre che siano sapienti, nel senso che sappiano distinguere i bravi architetti a cui delegare la programmazione architettonico-ambientale. Quindi, dotti e liberi Amministratori coadiuvati da efficienti e diligenti esecutori istituzionali. Nell’attualità, utopia allo stato puro!
CITTA’ Vs CASA

OF Guardando con occhio attento alle tue realizzazioni, sia che si tratti di un intervento sull’esistente o un nuovo edificio, traspare con evidenza come dietro al progetto vi sia sempre un agguerrito conflitto tra il tuo modo di pensare all’architettura e il conformismo dettato dai regolamenti edilizi. Il volume diventa un guscio – che si scrollatosi di dosso falde, finestre ordinarie, marcapiani  e mattoni – e’ li a proteggere ciò che vi e’ dentro; dove li’ le regole le fai tu. Visto che molti conoscono le tue opere dalla strada, ma pochi possono dare giudizi sulla qualità dei loro interni, ci puoi raccontare in forma narrativa la vita dentro una  abitazione da te progettata?

AT Non avverto la conflittualità tra idea e norma. Piuttosto esiste quella forma di pratico realismo nel mio atteggiamento progettuale senza la quale credo che un architetto non possa lavorare. Ritengo normale che il gesto debba confrontarsi con i Regolamenti, e non ho mai pensato che l’atto del ‘fare architettura’ possa essere limitato da questo paradigma; ogni disciplina ha delle sponde entro cui deve svolgersi…! Personalmente, peraltro, da razionalista quale mi considero, tendo a non indulgere in tentazioni di alcun genere. Penso che in un progetto architettonico i segni debbano ridursi al minimo e nel contempo sostengo che l’esagerazione, nel progetto stesso, è una prerogativa che va sempre perseguita, nel senso che, per esempio, la purezza esagerata è in architettura un risultato fantastico. Sulla qualità dell’abitare nei miei interni esito ad esprimermi. Tendo a ritenere, e quindi a disegnare, ogni mia opera di architettura di interni come un’opera non alterabile, ovvero in opposizione ad un allestimento. Interno come episodio museale; Silvestrin e Pawson in questo sono maestri. Poiché, però, è diffusa la valutazione popolare che confonde la ‘comodità’ e la ‘praticità’con ‘lo star bene’, posso ritenere che nella tipologia museale dell’abitare, qualcuno, o tanti, non si ritrovi …ma questo, come tutti gli altri, è un problema culturale!
SIAMO SOLO N(IO)

ND Chi ti conosce dice che la tua premura nel redigere un progetto e’ talmente puntigliosa  da rasentare  l’autoreferenzialita’. Se non ti trovi in questo giudizio, dici almeno se la tua proverbiale ricerca della perfezione e’ traducibile in una chiara convinzione estetica?

AT ‘Puntiglioso’ non è l’aggettivo corretto. Lo sostituirei con ‘rigoroso’. L’architetto deve essere rigoroso. Brunelleschi non lo fu nella sua cupola? O non lo fu Scarpa nei suoi altari? O non lo è Piano nei suoi perfetti esempi? Figuriamoci poi nell’attualità, con la profusione di elaborati esecutivi che ci vengono richiesti: vogliamo disegnare particolari pressappochisti o rigorosi?
E allora?
Credo che questo tuo commento scaturisca dalla nostra appartenenza ad un Paese senza definizioni o carente di educazione civica. E non a caso si confonde il ‘rigore’ con il ‘puntiglio’, come se il rigore fosse una prerogativa ingombrante, dispregiativa… Al contrario, la premura del rigore deve dovunque recensire l’attività di chiunque. Su questo tema ricordo sempre che il nostrano commento sul presunto ‘inquadramento’ della popolazione giapponese le consente di sopravvivere senza danni ad un evento tellurico al giorno: pensa se non usassero rigore nel loro agire….
No, non esiste, in generale, nessuna relazione tra la premura nella redazione rigorosa di un progetto architettonico (requisito che dovrebbe appartenere a tutti!) e l’autoreferenzialità (requisito che non dovrebbe appartenere a nessuno!).
Certo, quindi, che mi ritrovo nel giudizio sul rigore progettuale ed affermo che se la qualità di un architettura tende alla irreprensibilità (più che alla perfezione…) quell’architettura è probabile che sia esteticamente convincente.
OPEN HOUSE

ND A Londra da qualche anno c’è una manifestazione popolarissima nota come Open House che permette a chiunque di vistare – secondo un programma organizzato in un week-end d’estate – edifici pubblici e privati di ogni epoca realizzati da architetti, ingegneri e studi prestigiosi. La nostra città non offre probabilmente tante opere importanti quante quelle della capitale londinese, ma senza dubbio ci sarebbe da trascorrere un intero fine settimana dentro e fuori case e palazzi di cui la città e’ orgogliosa. Se questa manifestazione potesse essere organizzata a Bologna, saresti disposto a convincere i tuoi committenti ad aprire al pubblico le tue opere per alcune ore? Sarebbe un’occasione unica di trasformare una battaglia contro un nemico invisibile in un evento unico a favore dell’architettura.

AT Si, sarei assolutamente disposto a convincerli e concordo con la propagazione di questa manifestazione londinese, così come mi trovi sempre disponibile verso ogni iniziativa che favorisca l’accessibilità alla disciplina dell’architettura.

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© oscar ferrari_arcomai l Starhotel Excelsior in Viale P. Pietramellara, Bologna, 1998-2003.

Andrea Trebbi (Bologna, 1954) si laurea in architettura a Firenze nel 1979. Una selezione dei Concorsi internazionali a cui ha partecipato comprende l’area Manifattura Tabacchi a Bologna , l’area Garibaldi-Repubblica a Milano, ‘50 Chiese per Roma 2000’, la ristrutturazione del Complesso Museale del Prado a Madrid, il Memorial Minamata in Giappone, l’ampliamento della Biblioteca di Stato a Stoccolma, il nuovo stadio per il calcio di Siena, l’area portuale di Brindisi. Si è aggiudicato i Concorsi per la riqualificazione dell’area ex Accademia dell’Agricoltura a Bologna, per la realizzazione dell’autoparcheggio sotto piazza Carducci a Bologna e sotto piazza Stracciari a Casalecchio di Reno, per il restauro del Palazzo Municipale a San Lazzaro di Savena, per la ristrutturazione dello Starhotel Tuscany a Firenze, per la pianificazione di un comparto territoriale a Minerbio.Nel 2006, Editrice Compositori ha documentato il suo lavoro nella monografia AndreaTrebbi, 1980-2005architetture


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