Per Cameron Sinclair e’ tutta questione di ottimismo

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© arcomai l Cameron Sinclair

Cameron Sinclair – il co-fondatore insieme a Kate Stohr di Architects for Humanity – ha tenuto lo scorso 23 Settembre una lezione presso la Galleria dell’Architettura al Cersaie di Bologna. La nota organizzazione noprofit con sede a San Francisco (California) – nata dodici anni fa per offrire servizi di progettazione a comunità colpite da grandi catastrofi naturali o migrazioni causate da guerre e carestie –  si e’ distinta per essere intervenuta nella ricostruzione nel 2004 dei territori devastati dall’uragano Katrina negli Stati Uniti e dallo tsunami in Asia meridionale nonché quelli martoriati dal terremoto dello scorso anno ad Haiti e in Cile. L’intraprendente architetto di origine scozzese, punto di riferimento internazionale in questo ambito, e’ noto anche per aver lanciato con la Stohr l’Open Architecture Network, la prima comunità del mondo “open source” dedicata al miglioramento delle condizioni di vita attraverso il design innovativo e sostenibile. Nella sua lecture, introdotta e moderata da Franco la Cecla, Sinclair ha mostrando circa una quarantina di progetti relazionati in giro per il Globo dai suoi architects il cui numero ad oggi conta ben 40mila professionisti affiliati a 72 sezioni in 14 Paesi.

Per presentare Architects for Humanity al pubblico italiano, il relatore ha esordito affermando che loro sono come una sorta di United Colours of Benetton for Architecture: “I nostri architetti vengono da ogni parte del mondo, professano diverse religioni, hanno diversi punti di vista politici, ma sono tutti accomunati dall’idea di creare un ambiente migliore per le comunità […] Non ci occupiamo solo di offrire una consulenza professionale, ma seguiamo il progetto fino alla sua costruzione”. Per liberare il campo da possibili equivoci, il nostro ha voluto poi chiarire che il loro lavoro non e’ da associare alla più generalista sustainable architecture e, a tal proposito, ha detto: “Puoi costruire un edificio 100% sostenibile in mezzo al deserto – che sembra shit – ma nessuno lo ama”, per spiegare che se costruisci un edificio in cui la comunità si può riconoscere, allora crei una “sostenibilità culturale” capace anche di creare cambiamenti socio-economici. Per fare questo e’ importante non accontentarsi della mediocrità utilizzando la standardizzazione, ma puntare a dare al fruitore finale la possibilità di adottare, adattare e possedere il design del suo edificio. In questo modo, precisa Cameron, si creano le condizioni per costruire una “sostenibilità generazionale” capace di creare appartenenza e rispetto nei confronti di ciò che si realizza.

La formula del successo delle “missioni” curate da Cameron e i suoi boys sta nel far lavorare i volontari stranieri con i local architects. In questo modo si instaura una collaborazione basata sul rispetto reciproco che aiuta a far comprendere – per chi viene da fuori – le problematiche del luogo, concordare con il “cliente” (la comunità locale) il processo progettuale coinvolgendolo in tutte le fasi del processo, perché il destinatario dell’opera sarà colui che andrà a costruirla. Parlando poi delle organizzazione noprofit, coinvolte in progetti umanitari, il relatore e’ stato molto critico: “Le onlus dicono: Noi vi costruiamo la scuola, ma voi dovete lavorare gratis per questa […] Tu dici a gente – che non ha nulla – di lavorare senza essere retribuiti perché loro credono di fargli un regalo […] Le cose per Architectects for Humanity non stanno cosi’! Tu devi pagare la comunità per costruire l’edificio […] I soldi non sono donazioni ma investimenti. La ricostruzione e’ una occasione per creare lavoro” … (e poiché alcune) “onlus deforestano per finanziare i progetti […] Bisogna progettare senza rischi, prima di progettare senza costi”.

L’architetto e’ un fiume in piena. Con lo stesso spirito, entusiasmo e capacita’ comunicazione di un tipico golden boy della Silicon Valley, Cameron ha dedicato la parte centrale della sua presentazione nel far capire come e’ strutturata l’organizzatone da lui rappresentata. Per fare questo ha mostrato una diapositiva con tre modelli di companies. Dei tre quello più obsoleto e dannoso e’ quello radio-centrico del “modello-commando”, cioè quel tipo di gruppo che ha un quartier generale (decisionale) in mezzo al nulla e a cui pervengono informazioni dai diversi luoghi in cui esso e’ presente. E’ un modello primitivo perché non ha alcun rapporto con il luogo. Il modello della Architects for Humanity e’ invece quello a “ragnatela” della rete dove non c’è una sola mente ma molte “teste” che lavorano scambiandosi informazioni. A questo modello strutturale corrisponde anche un modello imprenditoriale che al momento ha sul libro paga più di cento fra dipendenti e designer free-lance.

Dei progetti presentati dal relatore hanno fatto pensare quelli sviluppati per paesi occidentali in cui la “domanda di aiuto” e’ aumentata sensibilmente. La crisi finanziaria ha creato crepe profonde nelle società più industrializzate al punto che anche in queste si potrebbe applicare lo stesso approccio di intervento già sperimentato per realtà devastate da guerre, malattie e povertà (vedi i progetti per New York e Chicago). La presentazione si e’ chiusa in “tempi supplementari” con una veloce carrellata di potenziali siti di intervento: le aree militari in via di dismissione in tutto il mondo. Tra queste vi e’ anche la tristemente nota base di Guantanamo Bay, per la quale la Presidenza degli Stati Unita ha chiesto una proposta di conversione in qualcosa d’altro.

Rispondendo alle domande del pubblico, Sinclair ha speso due battute riguardo alle relazioni che la sua organizzazione ha con gli altri architetti più “firmati” affermando: “Prima ti ignorano, poi ti deridono e infine vogliono lavorare con te […] Il problema e’ che molti di loro credono che si tratti di un frieday project, una sorta di collaborazione da sviluppare se si hanno ritagli di tempo, Invece l’impegno deve essere di un monday project come qualsiasi altro progetto”. Come ultimo messaggio ai giovani intervenuti si e’ licenziato cosi’: “Non c’è bisogno di aspettare l’età di F. Gary per fare qualcosa di importante”.

Alla fine dell’anno Open Architecture Network, si fonderà con Worldchanging, un altro sito che da sette anni si occupa della ricerca di soluzioni ai problemi ambientali. Fondato nel 2003 da Alex Steffen, un giornalista di Seattle, quest’altra organizzazione e’ finalizzata a fornire notizie e soluzioni per le minacce ambientali. La visione del suo promotore e’ raccolta in un best seller dal titolo “Worldchanging: Guida dell’utente per il 21° secolo” che raccoglie (in 600 pagine) strategie e metodi utili ad affrontare le sfide globali. Cameron come Alex sono accomunati da una forte dose di ottimismo che li aiuta a trasformare le negatività in energie capaci di affrontare e modificare le dinamiche generate da una causa; uno stato d’animo rivolto sempre al fatto che le cose possano andare meglio; solo cosi’ si trasforma una problema in una risorsa per tutti.


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