Oltre il recinto

Su l’evento espositivo Architetture contemporanee per Bologna svoltosi lo scorso maggio, e le interviste su Arcomai che hanno stimolato, si possono fare a margine alcune considerazioni e riflessioni. Appare evidente che l’attenzione e la maggior parte delle energie professionali profuse da questi progettisti sono prese dal “mestiere” e dal difficile confronto/scontro con la pratica quotidiana. Nel confronto tra gli attori del processo architettonico prevale di gran lunga quello con il committente/impresa/sviluppatore, in una prassi che spesso si consolida nel tempo, fino a diventare consuetudine, fino a sfociare a volte nella “fidelizzazione” reciproca tra committente e progettista. In pratica, la prassi tende a cristallizzare modelli comportamentali e progettuali ripetitivi. Ed anche per questo che la città non riesce più a riflettere su se stessa, perdendo così di personalità a favore di logiche altre.

Un’altra pratica assai diffusa e che si sta imponendo sempre più sono gli interventi, urbani e non, di “sostituzione”, ossia di demolizione di edifici esistenti e loro completa riedificazione “entro sagoma”, quasi a coincidere perfettamente, magari sfruttando meglio le volumetrie in essere, trasformandole in maggiori superfici e comunque con un “valore aggiunto” ben riconoscibile, che in fondo giustifica l’intervento, altrimenti incomprensibile ed antieconomico. Questo è dovuto in parte alle imposizioni del quadro normativo locale (cui si aggiungono normative antisismiche, energetiche, acustiche…) ed in parte dallo sfruttamento delle rendite posizionali, ma queste frequenti occasioni di rinnovamento pongono non pochi interrogativi comportamentali, non ultimo per i luoghi in cui vanno a ricadere. E’ indubbia la difficoltà nel definire cosa sia la “qualità” attesa nell’architettura contemporanea, ma è assai meno difficile riconoscerla a prima vista negli interventi e nelle opere quando si è dinnanzi a questi. Il “progetto” è allora considerato indispensabile per ogni espressione di trasformazione ambientale, ed il disegno urbano è la premessa essenziale per un buon progetto d’architettura.

L’ecosostenibilità sembra un approccio oramai irrinunciabile, diventa però anche un alibi per sostenere qualsiasi risultato, anche se all’apparenza per niente dissimile dalle costruzioni tradizionali, ed il rischio è che diventi un’etichetta “necessaria”. Come se l’architettura possa diventare all’improvviso qualcosa di naturale e non già il suo esatto opposto, con il sospetto che in tutto ciò s’insinui l’ennesima imposizione di una “legge di mercato”, in via di “sublimazione”. Il ruolo della committenza, sia pubblica che privata, è essenziale come premessa per la buona pratica, così come il buon funzionamento di un “necessario” organismo di controllo, come possono forse essere le CQAP e più difficilmente le SBAA o gli Ordini professionali.

Pare che assieme alla promozione per un maggior ricorso ad un’architettura di qualità ci sia anche bisogno di una sua difesa, qualora si verificano le fortunate occasioni per progettarla, prima, e di realizzarla, poi, specie se in maniera autentica e fino in fondo. A tal proposito, oramai non sono più tanto infrequenti le “campagne” d’opinione pubblica sulla congruità di taluni progetti e realizzazioni di architettura contemporanea a Bologna, dopo l’eclatante referendum “bociativo” per la Nuova Stazione Centrale di Boffil, di una quindicina di anni fa, e la più recente demolizione delle Gocce in Piazza Renzo di Cucinella. Anzi, sembra oramai che additare l’”ecomostro” di turno sia diventata una prassi quasi scontata: basta uscire dagli stilemi della “normalità”, perfino di un’austera modernità, che la libera espressione della contemporaneità, con tutti i suoi portati (e rischi), diventa per taluni un intollerabile insulto alla comunità ed al suo patrimonio urbano e paesaggistico consolidato, come se questo non fosse fatto di altrettante “attualizzazioni”, ma però di un tempo passato e celebrato, quindi pacifico per antonomasia.

Nascono così facilmente comitati a difesa del “consolidato” e del quieto vivere, dove si affaccia spesso la contemporaneità a disturbare, per i motivi sopracitati. L’edilizia sordo-muta ed ignorante invece si salva brillantemente, ben mimetizzata ed assorbita (ma anche assopita) nel diffuso scenario cittadino degli ultimi decenni. Ci si è così ben presto dimenticati dei preziosissimi esempi e contributi avuti nei decenni della ricostruzione postbellica, nell’immaginare i nuovi quartieri periferici e nel rinnovamento dell’ambito edificato storico cittadino.

Si tratta quindi oramai di un clima culturale, di un abito socio-economico, difficile da controvvertire ed in tempi brevi, venendo a mancare pure di una “scuola” di riferimento, come potrebbe essere la sede universitaria. Ed allora s’impone come necessaria un’azione “rieducativa” ad ampia scala e che possa prendere a riferimento l’opinione pubblica allargata, e di qui ridare fiducia a tutto il sistema.  Assieme a quest’azione, ci vorrebbe anche un rigore maggiore negli interventi pubblici, spingendo verso la sperimentazione, alzando notevolmente il livello qualitativo, allargando gli orizzonti ed i coinvolgimenti. Invece non si fanno neppure i concorsi di architettura, se non quelli strettamente necessari per legge. In uno scenario così ristretto e desolato, allora molta della tensione disciplinare si rivolge a trovare “l’occasione”, lo si capisce bene, ma non può essere la giustificazione di tutto. Si finisce così per voler vedere forzatamente troppo in quello che si fa, perché non si guarda sufficientemente oltre il recinto.


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