Opere di facciata dell’Italia in scala 1:1

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 © arcomai l Piazza Maggiore. I cantieri della Basilica di San Petronio e Palazzo dei Banchi.

Se vi sia capitato di stare in Piazza Maggiore a Bologna nell’autunno 2010, forse anche voi, almeno per un attimo, avete avvertito un senso di disagio. La Basilica di San Petronio e Palazzo dei Banchi avevano, sui teloni dei ponteggi  dei restauri, le facciate riprodotte da disegni e fotografie in scala 1/1 e la sensazione era quella di entrare in un gioco da bambini tipo domus kit, o Alice nel paese delle meraviglie.

Da qui è nato questo piccolo articolo, riflessione sull’opportunità di utilizzare la riproduzione sempre e comunque, grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie che la consentono ormai con estrema facilità. Perché averne paura, visti gli innegabili vantaggi di diffusione e conoscenza ai più? Tutti, grazie ad essa, possono oggi avere in casa la bellezza dipinta da van Gogh o Caravaggio (almeno delle loro opere più celebri), riprodotta su libri di storia dell’arte o manifesti da appendere alle pareti (o decalcomanie da stampare n volte su carta speciale dal computer e trasferire come decoro…) Sul tema della riproducibilità dell’arte, da Walter Benjamin alla pop art, in tanti hanno riflettuto e scritto. Credo il pericolo stia nella riduzione delle cose alla loro immagine. Dell’opera scompare la dimensione, il contesto, la tridimensionalità, la matericità, il luogo che le ospita, la storia che le ha portate lì e non altrove, la fatica di arrivarci,… Il pericolo è farle diventare icone, luoghi comuni, pensieri collettivi incorporei, idee astratte da subire. Allargando per un attimo la riflessione anche alle recenti mostre impossibili fatte con riproduzioni delle opere o ai musei virtuali, riconosciamo che la possibilità di studio e didattica aumenta, la tecnologia ingrandisce e mostra di più… ma manca l’errore di interpretazione, la possibilità di rileggerle a proprio modo e reinventarle. Credo l’arte stia in questo attimo di incontro, fra l’opera e chi guarda. Non nell’oggetto in sé (o nel concetto di possesso fisico ad esso e alla sua riproduzione collegato). I musei e i monumenti senza persone che li abitino sono morti. E’ importante quello che di essi si avvicina alla vita, l’imponderabile trasformazione attuata in chi guarda, sente e trasforma.

Ma ritorniamo a Bologna. E al caso dei ponteggi. L’architettura dei ponteggi ha un suo fascino e potrebbe dare l’oppurtunità di avere un’architettura diversa per qualche mese. Potrebbe richiamare l’attenzione delle persone e farle interagire, anche tramite l’assenza. L’immagine in scala, invece, vuole dare l’immagine del finito, del perfetto, del falso, del fuori dal tempo. Proprio al non finito (a mio avviso per fortuna rimasto tale) della facciata incompiuta di San Petronio! Come d’incanto tra qualche mese il telone sparira’, come se non fosse mai accaduto nulla. E l’edificio avrà perduto un pezzetto della sua storia, come se il cantiere non fosse mai esistito e con esso chi vi ha lavorato. Rispetto alla “polaroid gigante” anche la pubblicità spesso è più affascinante, perché lavora sul fuoriscala, apre l’immaginazione, può far sorridere o pensare. Ci sarebbero tante cose da dire e la pubblicita’ potrebbe sfondare lo schemo della citta’ con messaggi educativi in un epoca in cui il piccolo schermo sembra infondere solo volgarita’ e rumore.

Con i teloni da cantiere presenti in altre citta’ stiamo fabbricando non più un’Italia in miniatura ma un Paese in scala 1:1. E ci viviamo dentro. Mi piacerebbe capire dove vanno a finire dopo i restauri queste gigantografie. Rottamate? Reciclate? Raccolte in un altro luogo? Magari sono dentro a qualche shopping malls di una delle new towns nel deserto degli Emirati Arabi? Ci sono forse porte, palazzi e chiese di Bologna, Venezia o Firenze da qualche parte del mondo, e non lo sappiamo? …. Perche’ non pensare ad una sorta di Piazza Novissima alla Portoghesi e raccogliere il tutto in un dei padiglioni della Fiera? E non è più affascinate l’idea di reinventarle in questo modo che non applicarle al ponteggio, quando dicono solo “qui dietro c’è questo?”, mentendo e svilendo il monumento alla sua immagine montata male?

A Modena, per il restauro della Ghirlandina, è stato indetto un concorso di idee per il disegno dei teli di ponteggio. Lo ha vinto Mimmo Paladino. Si è provato ad interpretare diversamente uno spazio, una superficie. Con il linguaggio di oggi. Si è sfruttata la necessità del ponteggio per dare all’architettura, nello spazio temporale dei lavori, un aspetto diverso, che non avrà mai più. Personalmente il risultato non mi convince. Ma credo che più conti il processo, il tentativo fatto di coinvolgere il pensiero delle persone sulla loro città, il senso di progettualità su essa.

Proprio dietro a Palazzo d’Accursio a pochi passi da Piazza Maggiore, Bologna ha ricordato il lavoro di Christo (Christo Vladimirov Javacheff, 1935) e Jeanne-Claude (Jeanne-Claude Denat de Guillebon, 1935-2009) nella primavera del 2002 con l’antologia “Christo and Jeanne Claude’s babies” ospitata dalla galleria “Arte e Arte”, nella quale vennero esposti i bozzetti dei “Wrapped Objects”, i famosi “impacchettamenti” di paesaggi e monumenti realizzati in tutto il mondo dalla coppia di artisti dalla metà degli anni ’60 ad oggi. In queste opere (idee trasformate in progetti) di piccolo formato (babies) fatte di carta, pastelli e stoffe è espresso il pensiero artistico dei suoi autori i quali, sottraendo con l’empaquetage per un breve lasso di tempo l’esistente, ne svelano l’essenza stimolando l’immaginazione di chi osserva. Così sintetizza parlando del proprio lavoro Jeanne Claude in un’intervista (“Domus” nr. 790/1997 col titolo “Il grande velo del meraviglioso”) all’amico e teorico del Nouveau Réalisme Pierre Restany: “Il velo restituisce l’essenza”. Attraverso questo processo si arriva a “sfidare” il dogma della cultura occidentale sulla perennità dell’arte, sottolineando così il mistero che avvolge l’habitus della civiltà. In questo gioco ironico tra ciò che non esiste e ciò che sappiamo esistere ma ci è negato di vedere, si de-contestualizza volontariamente il luogo (in questo caso urbano) spostando, prima, l’attenzione dall’oggetto, all’uomo, all’ambiente – al punto da proporre una diversa percezione della scala di rapporti tra uomo e il suo spazio – per poi arrivare a decretare una nuova identità della strutture entro le quali l’uomo vive ed agisce. E’ significativo come Restany, parlando di queste opere, dichiari in tempi non sospetti “…in un momento in cui l’architettura conta troppi ingegneri o uomini d’affari e non abbastanza poeti, Christo fa parte di questi artisti che assumono il rilancio immaginativo di questo campo” (Otto Hahn e Pierre Restany, “Christo”, Edizioni Apollinaire, Milano 1965).

A Parigi è nato il “surrealismo urbano” – teorizzato in nun vero e proprio manifesto sotto la sigla de “39George-V” che   porta a riflettere sula percezione che si ha dello spazio urbano e sulla sua componente effimera: tutto e’ in perenne mutamento. Promosso dalla società francese Athem che produce pubblicita’ in grandi formati; il progetto ha visto la collaborazione dell’architetto Antoine Locqueville e dell’artista Pierre Delavie che insieme hanno ideato un modo piuttosto singolare un approccio spettacolare all’atto di fascondere cantieri dalla strada: dopo aver riprodotto in scala 1:1 l’edificio esistente ne viene distorta la prospettiva tanto da deformare le sue finestre allo stesso modo in cui Dali’ manipolo’ gli orologi del suo famoso Persistence de la mémoire del 1931. Questa provocazione agisce come “fattore di disturbo” in grado di far riflettere sull’architettura e sulla logica della citta’ stimolando cosi’ dubbi sulla contemporanea visione dello spazio e sul bisogno di adattare l’edificio al nostro tempo e alle nostre esigenze Una delle più famose massime di Dali’ recita: “Surrealism is destructive, but it destroys only what it considers to be shackles limiting out vision.” La Dancing House (1996) di Frank Gehry del 1996 e’ la traduzione tridimensioanle di questo concetto.

Mi chiedo se non sia meglio un semplice telo bianco. Un vuoto che diventa silenzio. Un buco bianco che ti fa riflettere sul chiasso del nostro vivere (e valorizzi il monumento con la momentanea perdita), un lenzuolo che diventa schermo su cui proiettare i films estivi durante il ciclo estivo … al posto di erigere un grande schermo da mondiali che nasconde cio’ che e’ dietro. Mi viene in mente quello che l’artista Mario Mariotti fece sulla Chiesa di Santo Spirito a Firenze nell’estate del 1980 quando invitando gli artisti di sua conoscenza, che avevano poi passato parola fino a diventare circa 300, chiese loro di immaginare una facciata per quella incompiuta di Brunelleschi. Le proposte pervenute furono proiettate in due memorabili serate col semplice utilizzo di un proiettore di diapositive. Per poche ore quella nudità protrattasi per secoli venne coperta dalla poesia fugace di fantasie possibili per un futuro che non ci sarebbe mai stato, ma che niente impediva di sognare.

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Installazione sulla facciata della Chiesa di Santo Spirito a Firenze (1980). “Surrealismo urbano” a Parigi (39George-V).


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