Usus/Usures: Ritorno/alla Realtà
© arcomai l Il Padiglione del Belgio alla XIIa Biennale di Venezia.
Dopo tante immagini, simulazioni, filmati, render, realtà virtuali,… finalmente uno sguardo sulla realtà per quella che è. Non una sua riduzione a (pre)concetto-immagine-icona. Non un automatismo. Un rimbalzo, l’ennesima copia di un’idea alla quale non possiamo scoprire o aggiungere nulla, ma solo darne conferma e restituirla identica. L’attenzione va al materiale fisico, non all’idea del materiale.
Il padiglione del Belgio 2010, curato dal gruppo Rotor di ruxelles, espone come opere d’arte (pezzi unici) pavimenti consumati, maniglie, parapetti e corrimani: gli oggetti dove maggiormente troviamo i segni dell’uomo (a rincorrere il tema della mostra: l’incontrarsi nell’architettura). Nello spazio bianco del padiglione spiccano per contrasto questi oggetti consumati, isolati e decontestualizzati anche rispetto la percezione prospettica (pavimenti verticali, corrimani senza scale,…) acquistando una seconda vita e una grande vitalità. Il materiale fisico è un unico, e qui sta il suo valore, perché i segni e le imperfezioni ci parlano dell’impossibilità del generico, della falsità della copia, della povertà dell’astrazione. L’invito è ad attingere e a rivolgere l’attenzione della propria meditazione-ispirazione sull’infinito della realtà, non su una sua diminuzione-mediazione da parte dell’uomo. Il materiale è anche storia, lavoro, fatica, peso, tempo. E’ lo specifico che si oppone al generico (il complesso al semplice-semplificato).
Non c’è un pavimento di legno come tanti, c’è il pavimento di casa Baroncini. Si tratta di legno di rovere biondo, coltivato sull’Appennino Emiliano. Venti anni fa sono stati abbattuti alcuni alberi, portati in segheria, qui lavorati e tagliati in assi dal falegname Silvano, che un giorno si è sentito male nel farlo, ed è rientrato prima la sera… Poi scelti dalla signora Annarosa, acquistati da suo marito Gino e posati da Ivano nel soggiorno della loro casa. Impossibile raccontarne ogni attimo di vita. In molto tempo trascorso visibilmente sembrava non succedere nulla. Eppure il legno mutava. Qui si inscuriva leggermente per l’umidità del muro, là schiariva per essere colpito dal sole. Le estati si espandeva e rigonfiava, rovinandosi sui bordi. Sulla destra la macchia è quella del caffè ribaltato da Beatrice (se ne sente ancora l’odore nelle fibre), mentre i segni neri sono stati lasciati dalle scarpe da ginnastica di Massimo, una sera invitato a cena. Fu tre anni fa e si rise tanto. Gli altri graffi sono quelli lasciati dal divano-letto dove, a volte, dormiva Andrea. Dice di avere sempre fatto sogni tranquilli, lì. Attorno a questo legno, poi divenuto pavimento, si sono incontrate tutte queste persone (e molte altre, fin da quando era albero e prima ancora…).
La realtà è infinita e possiamo coglierne solo alcuni aspetti limitati, quelli che nel momento ci interessano. I materiali non sono immagini intercambiabili ed equivalentemente disponibili qui e ora (come ci abituano a pensare i “configuratori” – i nostri più recenti aiuti al progetto! – dandoci l’illusione di una falsa personalizzazione…). Hanno una propria realtà fisica specifica che implica spessori, direzioni di venature e fibre, resistenze, dimensioni, tipi di montaggio, cioè problemi da porsi e risolvere. L’architetto non è uno che, inventata dal nulla (e per divertimento) una forma, la “dipinge” con una texture che sceglie da una cartella (fatta di immagini intercambiabili, di uguale dimensione). E’ (dovrebbe essere) uno che conosce (ama: la forma più elevata di conoscenza) e sa costruire con alcuni (non avrebbe senso tutti) materiali, padroneggiandone le caratteristiche fisiche, e impiegandoli in un progetto non per dare un moode, ma per utilizzarne con intelligenza la natura, che è diversa, specifica, singolare.
La costruzione architettonica, così come ogni realtà fisica, è un unico, non divisibile fra struttura e immagine. L’una deriva dall’altra. La libertà del progettista non è il non avere vincoli (perché oggi si può fare tutto: bel limite questo!), ma nell’averli e saperli affrontare, nel trovare “come” risolverli. Del resto Carlo Scarpa, al di là dei disegni (mai realistici), progettava e cambiava in cantiere, seguendo la realtà imprevedibile delle cose. Michelangelo sembra si recasse personalmente a Carrara per scegliere i blocchi di marmo, che non credeva essere, appunto, uguali o intercambiabili, ma, a suo dire, ognuno di essi conteneva UNA potenziale scultura e non un’altra. Kahn diceva ai suoi studenti di chiedere al mattone cosa voglia diventare, facendo seguire la costruzione alla natura del materiale impiegato.
L’unicità di ogni oggetto reale sta anche nella sua usura, nell’irripetibilità della sua storia, nella sua imperfezione. Ciò che spesso consideriamo un errore, qualcosa da cancellare o al più presto sostituire, è l’essenza del reale. E’ ciò che ci fa percepire una verità, quella della nostra materialità, della contingenza, del tempo. Per questo l’errore è necessario: salvaguarda dall’automatismo, consentendo la diversificazione e l’arricchimento, a volte anche a costo di passaggi lunghi, difficili, dolorosi. Spesso, infatti, nel nuovo (nel perfetto, nel compiuto) qualcosa non piace: non ha addosso i segni del tempo, le tracce del passaggio nella realtà, la relazione con l’intorno, non respira e cambia con l’aria: ci appare finto; su questo tema esempi di restauri “sbagliati”, fatti sulla traccia di un’idea a-prioristica del ritorno ad una forma originaria, ad un primo progetto da preservare rigidamente come forma al di là dei cambiamenti del mondo attorno e del disfacimento della materia, ne troviamo tanti (vedi il restauro dello Stoà di Attalo).
Il colore è il “materiale del nuovo”, è un’astrazione. Appartiene alle idee, al progetto, non alla realtà. Se si pensa all’opera di Claude Monet, che dipinge a ogni ora del giorno e in ogni stagione la cattedrale di Rouen, nella febbrile ricerca di qualcosa che sempre sfugge perché in continua variazione, subito si comprende come il colore inteso come qualità inalterabile, definitiva, propria di un oggetto fisico, non esista. Esso sta nell’immateriale, è pensiero, frequenza, numero; infatti rattrista vedere degradati e sporchi i bianchi volumi ideali e puri di Le Corbusier e dall’architettura razionalista in genere, che male regge all’invecchiamento, o accorgersi che i colori primari (1) di Rietveld celino sotto lo smalto la realtà della materia: un legno scheggiato, un intonaco macchiato e ammalorato, l’odore di umido, ci riportano alle cose e all’impossibilità di stare nel mondo imperturbabile delle idee.
© eric mairiaux l (for ROTOR) l Underground seat.
Tanti progetti di architettura utilizzano oggi il monocolore (2), come idea progettuale. Bellissime e affascinanti spazialità nei render, sempre più allontanano la progettazione architettonica dal porsi e superare problemi reali (potenziali ricchezze), che poi l’opera dovrà affrontare (3) : apprezzo il risolvere con un materiale povero e poco costoso (la vernice) e la sola forza dell’idea delle situazioni, ma non posso che sentirlo una forzatura che cancella la natura delle cose. Mi chiedo, ad esempio, che materiale sia e come resisterà all’usura il bianco indistinto colato uniformemente e senza soluzioni di continuità sugli interni della stazione di Bologna, pavimento compreso.
Quale tolleranza abbiamo all’usura? Questo è l’interrogativo dei curatori del padiglione del Belgio 2010. Non sarebbe meglio prenderne atto e ragionare sulla nostra situazione di incompletezza, imperfezione, al posto che fingere non sia così e lottare in continuo contro il deperimento, l’invecchiare, il finire, il trasformarsi, alla ricorsa (persa in partenza) di un finto completo, finito, perfetto? I processi del tempo sono complessi, mai completamente prevedibili, dunque progettabili. Anche se recentemente si sta tentando, spesso attratti dalla sola valenza estetica finale (più “ricca” del solo colore inteso come tinta unita), di restituire come decorazione, apparenza, il segno del degrado del tempo: l’ossidazione dell’acciaio (la vecchia ruggine nel moderno acciaio corten), o l’invecchiamento del rame (il verde rame, appunto, ora ossidato in pochi giorni); o, ancora, le tegole macchiate, a simulare l’attacco della vegetazione. Andando a visitare le fiere di prodotti per le costruzioni e l’edilizia si trovano ormai in gran quantità materiali artificiali che simulano materiali naturali.
Anche l’arte povera è un esempio della fascinazione indiscutibile verso i “segni del tempo”. Così come nei secoli passati lo erano le grottesche, il bugnato, le rovine romantiche,… ma ecco che, costrette in un’idea formale, le cose perdono valore, si svuotano… “possedere” le cose, definirle, le fa esaurire. Quando sembra di essere arrivati ad una definizione compiuta, ripetibile, sfuggono. Oggi, in gran parte dell’architettura contemporanea, grazie a tecnologie sempre più evolute, la materia viene imitata nella sembianza esterna, coincidendo sempre più l’architettura con la sua rappresentazione. Il valore dell’architettura contemporanea è ormai associato a quello del concept, non a quello della sua realizzazione. Così anche nell’architettura costruita, come succede nei render, dove il materiale è un colore, il materiale diventa skin (Skins for buildings, BIS 2004), una pelle di rivestimento, utile a dare un aspetto da lontano.
Il mondo attuale investe la maggior parte delle proprie energie su simulazioni piuttosto che sulle opere reali. Tutto ciò delinea un più ampio processo di teorizzazione della nostra cultura, nel quale si avverte il pericolo della perdita del rapporto con la realtà; solo la costruzione, il passaggio alla concretezza, porta alla diversificazione, alla crescita, alla complessità, all’autenticità, mentre l’idea astratta è di tutti, e la sua copia vale quanto l’originale.
Note:
1 In arte, si pensi al minimalismo del blu di Klein, che infatti professava:“Lunga vita all’immateriale!” e mirava a far provare al pubblico la sensazione di far percepire e capire un’idea astratta
2 Interessanti operazioni minimali con il colore sono state compiute anche in architettura; ad esempio da Jean Nouvel, con il Kilometro rosso alla Brembo di Bergamo, o di recente nel padiglione Serpentine Gallery Pavilion 2010; o da Massimiliano Fuksas, che dipinge sempre di rosso (idea del colore per eccellenza, il primo a cui si pensa) gli elementi di copertura ad Europark a Salisburgo; reti, tubazioni, macchine per l’aerazione, guard rail, illuminazione, unificati dal rosso diventano un nuovo paesaggio, invenzione, non sono più gli stessi oggetti. Arata Isozaki alla stazione di Bologna, la stessa Sejima nel recente Rolex Learning Center di Losanna, o in residenze a Tokio.
3 A meno che l’opera, come sostiene Koolhas, non abbia a durare ben poco: ma quanta ricchezza si perde… a questo proposito cito il testo: “Modernità e durata” di Vittorio Magnano Lampugnani.