La Lettonia lancia il ”dado urbano” e punta tutto su un ”codice aperto” in architettura

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© arcomai l Il dado urbano rotola in Riva San Biagio durante i giorni che precedono l’apertura al pubblico della 10. Mostra Internazionale di Architettura.

La cultura architettonica ha affrontato più volte il tema dello “spazio minimo” come matrice di sistemi di abitazione complessi. Il problema dell’abitare è stato centrale nel Movimento Moderno che, già dal CIAM del ’29, raccolse i primi appunti dai quali, successivamente, si formerà quella cultura del “vivere moderno” che, orientata verso la ricerca di un’unità minima d’abitazione, porterà, mediante l’organizzazione industriale e la messa a punto dell’arredamento domestico, alla crescita di una città di tipo non tradizionale le cui tracce e strutture sono ovunque riconoscibili:  “Compito di un congresso – dicono Le Corbusier e Jeanneret – come il nostro, con lo sforzo individuale di tutti noi, sarà di provare a codificare, con una convenzione internazionale, le diverse misure tipo della casa”. In epoche recenti il tema è stato affrontato in modi diversi, assumendo ovviamente connotazioni nuove ed innescando dibattiti che oggi sembrano orientati verso le questioni che legano la densità urbana alle aree dismesse e rigenerate.

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© arcomai l Il plichi di cartone pronti per diventare il dado urbano e alcune viste interne del suo arredamento.

Nell’ambito dell’ottava Biennale di architettura del 2002, proprio sul tema degli spazi abitativi minimi, fu allestito (in collaborazione con Aid’A / Agenzia Italiana d’Architettura) una sezione dal titolo Lonely Living. L’architettura dello spazio primario. L’operazione portò alla realizzazione (in un’area protetta dei Giardini) di un padiglione collettivo autogestito da un gruppo di 20 architetti italiani che, misurandosi sul difficile tema dello spazio primario, costruirono (sulla base di un masterplan disegnato da uno studio incaricato da La Biennale) un isolato di 19 abitacoli tutti realizzati con pannelli di legno truciolare (fornito da una ditta italiana del settore) e dimensionati entro una base di circa 20 mq. per un’altezza di 4m. Una sorta di “cittadella ideale” dei single ispirata da un committente immaginario ma reale e finalizzata a far “ … riflettere sui bisogni primari delle categorie più deboli (homeless, portatori di handicap, membri di etnie o confessioni minoritarie, bambini, anziani….) e sui bisogni dettati dai nuovi modi di vivere la città e territori cangianti che ridefiniscono in continuazione il concetto di comunità”.

La lonely-community (made in italy) di quella EXPO ha in modo superficiale – perché sostanzialmente  formale – affrontato il difficile confronto tra singolo e collettività, tra valori individuali e valori comunitari, tra individuo e massa, tra permanente e provvisorio. Infatti, non c’era bisogno di edificare un “abaco della solitudine” per affrontare le questioni inerenti le dinamiche innescate da una città contemporanea (non necessariamente metropolitana) che genera sì forme di convivenza anche temporanee, al di fuori degli schemi coesivi della cultura unica, ma che non necessariamente fa di queste dinamiche delle emergenze mediante le quali monumentalizzare il tema del “vivere-solo”, o porre l’accento sui disagi e sui possibili conflitti della convivenza contemporanea. Questo, forse, è uno dei grandi limiti dell’architettura oggi: credere con la mera/bella soluzione progettuale di poter risolvere questioni ben più grandi del disegno.

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© Ugis Senbergs l  Alcune fasi di assemblaggio del dado urbano.

A distanza di solo due edizioni, il tema della “casa minima” si ripresenta in modo disinibito grazie al Padiglione della Lettonia che, sulla Riva San Biagio a Castello e quindi fuori dalle “sedi nobili” della rassegna, propone, in questo decimo appuntamento internazionale dal tema Città, architettura e società, una propria singolare idea di dimora: “Un’abitazione a forma di dado, nella quale sia possibile adibire a più funzioni un piccolo spazio, trasformandolo”. Si tratta di una cellula abitativa ironica, leggera, mobile, fragile, assemblabile, manipolabile, biodegradabile, riciclabile che “…può essere collegata ai servizi e alle comunicazioni urbane in qualsiasi posto essa si trovi. Queste abitazioni possono essere assemblate le une alle altre e formare così colonie di abitazioni a forma di dado. Le abitazioni si adattano a qualsiasi tipo di ambiente e stimolano le persone a creare un tipo di spazio abitativo non tradizionale”.

E così, la Lettonia viene a Venezia e lancia il dado della scommessa all’altra anima del continente, quella vecchia, pomposa, erudita, ricca, politica, decisionale, che dalla comoda casa di Piazza Bruxelles snobba Lei e gli altri inquilini del Condominio Europa che dal primo maggio 2004 hanno determinato l’allargamento a venticinque. Le regole del gioco sono chiare: far rotolare una casa-dado che “…, a seconda delle necessità e dei desideri, può essere cambiata di posto e trasformata con la sola forza dei muscoli di chi la abita. Ciò rappresenta un’occasione per creare un proprio e personale ambiente in qualunque luogo ci si trovi, senza lasciare un impatto indesiderato e permanente sull’architettura tradizionale del luogo”.

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© Ugis Senbergs l Schema di flessibilità del dado urbano. Esempio di una colonia di abitazioni a forma di dado.

Mentre parliamo il dado urbano rotola lentamente in giro per il mondo, mosso solo dal suo inquilino che è uno di noi, uno qualsiasi della nostra epoca, quella della sportina, del tetrapak, del preservativo, dei barattoli, del rasoio, delle schede telefoniche, …, delle scatole di imballaggio. Ed è fatto proprio di cartone il dado sociale con il quale il suo ideatore, l’architetto Ugis Senbergs, ci invita a partecipare alla partita ispirata dalla: “organizzazione e la trasformazione dello spazio e dell’ambiente come gioco, spogliando questi processi della loro eccessiva seriosità e della loro carica di responsabilità. Gioia di vivere non senso di fatalità”.

Questa partita a dadi è un gioco di società in cui non si vince nulla, perché tutti hanno da perdere; è una sorta di Monopoly senza palazzi da comprare perché è il dado stesso la casa. Il premio è semplicemente la libertà di giocare, di pensare, di vedere altro, di incontare “… persone che non mettono al primo posto nella loro vita né tassi di credito, né rispettabili curriculum vitae, né tantomeno regolari visite da psicologhi con le loro lunghe liste di nevrosi. L’abitazione a forma di dado ci offre, al posto di un incessante stress e logorio, leggerezza, al posto della stabilità, la mobilità, al posto di orari fissi di lavoro, tempo libero, al posto di un’osservazione passiva della realtà, la libera espressione delle proprie idee e un’attiva partecipazione anche nell’ambito della pianificazione dell’ambiente attorno a noi”. Riconosciamo in questa operazione un profondo messaggio provocatorio, e non può essere diversamente visto che l’autore è lettone e quindi cittadino di un paese oggi europeo e democratico ma ieri vittima di un’occupazione devastante in cui proprio l’annullamento del “fattore casa” ne è stato l’atto scellerato primario.

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© Ugis Senbergs l Una partita a dadi in città. I dadi urbani possono essere utilizzati per mettere in piedi sistemi auto-organizzati.

La Lettonia è un paese che cresce e non solo per il mercato. Mentre nella scorsa edizione è venuta presentando al mondo il suo grande patrimonio storico-architettonico insieme alle problematiche ad esso collegate proprio per la stagione di sviluppo in atto, con questa idea coraggiosa Essa esce dai confini della capitale, nella quale abita metà della popolazione nazionale, per incontrare l’Europa. È un’occasione unica da non farsi sfuggire per fertilizzare il dibattito sulla città contemporanea europea più che quella generalista proposta dalla “famiglia allargata” di biennali di tutto il mondo. Il dado pensato da Senbergs parte da un “minimo biologico” per arrivare ad una “organizzazione autonoma di colonie di abitazioni a forma di dado” che grazie “alla possibilità di renderle adatte a specifiche necessità, rendono la pianificazione architettonica ed ambientale alquanto simile alla programmazione di un codice aperto in architettura” mediante il quale si “cancella il confine che esiste tra chi programma l’ambiente e chi ne fruisce”.

Il dado urbano non è un’architettura conformata sulla base della funzionalità e/o del mercato, non una soluzione arredata/attrezzata a tutti i costi, non una cellula abitativa tecnologica per un individuo autonomo/automatizzato, ma piuttosto una dimensionale elementare che, moltiplicata in ordine sparso, dribbla i grandi numeri esibiti dalla calcolatrice di Richard Burdett per sfiorare un’imprevista idea meta-fisica, meta-politica, meta-urbana di una città che, sebbene non sia certo quella esibita nel corridoio di lusso dell’Arsenale, sembra essere , paradossalmente, una delle poche proposte in grado di aver inteso il taglio trasversale proposto dal curatore della mostra. Infatti, proprio con l’adozione di questo “codice aperto” si ristabilisce un rapporto tra l’architetto e il suo pensiero/agire – vivisezionato dalla formula di questa edizione (Città, architettura, società) – : “L’architetto e il pianificatore ambientale danno vita a un codice primario, costruiscono un sistema di interazioni, che viene successivamente integrato dall’utente e con il quale egli comunica. Il ruolo sociale dell’architetto acquisisce nuovi tratti, offrendo un abbozzo di pianificazione, che spinge gli utenti ad agire e a mettere in atto un comportamento creativo e a sentirsi responsabili verso l’ambiente che occupano.” La città quindi viene dopo e non prima.

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© Ugis Senbergs l Il dado urbano rotola in qualsiasi parte del mondo. Il dado di cartone può essere anche bunker militare.

Da questa esperienza ne emerge un messaggio positivo, ottimista, spiazzante. Questa non è la casa per il disadattato, l’emarginato, il single in carriera, ma semplicemente un modulo residenziale abitato da un individuo che non fugge dal resto, non si chiude in casa per isolarsi, ma anzi esce o meglio spinge la sua dimora verso gli altri per incontrare l’altro, per conoscere un mondo che per anni gli è stato negato. È un’unità interiore che sputa addosso al Real Estate; che deride l’IKEA perché è essa stessa una casa/mobile-IKEA, perché è lei stessa un’attrezzatura minima (fatta anch’essa di cartone) che avvolge l’uomo; è una cellula sovversiva perché sfida il “pensare piano” (masterplan, no grazie!); è contemporanea perché è nomade; non esiste perchè non ha identità, perché non è accatastabile; è pulita perchè non ha il garage (è l’inquilino il suo motore); è sostenibile perché non ha giardino, perché è il mondo il suo parco; non ha valore perché non ha prezzo, perché non deve pagare un mutuo alle banche; è vulnerabile perché non è assicurata, perché nessuno assicurerebbe mai una scatola di cartone, è eterna perché non sarà mai restaurata, perché va oltre il moderno; è un modulo socialista perché non è una scatola chiusa, perchè è un codice aperto in l’architettura.

Nelle sue molteplici varianti il suo ideatore arriva anche ad immaginare il dado urbano come un bunker militare. Ciò mi fa ricordare le ultime battute di quel capolavoro cinematografico che ha fatto del regista russo Andrei Tarkovskij il “profeta della spiritualità” della storia del cinema, quando ne Il Sacrificio fa dire allo speaker di una radio, accesa nella casa in cui si svolge l’intera trama del film, che per proteggersi dall’imminente catastrofe nucleare: “Il miglior posto, il posto più sicuro della terra, adesso, è dove vi trovate”.

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© arcomai l Il dado urbano rotola tra le persone che percorrono Riva San Biagio.


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