Land art, architettura-infrastruttura, paesaggio. Risposte alla citta’ diffusa

Si è tenuta mercoledì 27 settembre, presso la Sala Congressi di Carpi, a Modena, la seconda conferenza del ciclo di cinque programmate con l’iniziativa “Le città ideali. Paesaggio, Qualità, Architettura”, di cui fanno parte anche una Tavola Rotonda, un Workshop ed una Mostra. (www.lecittaideali.it)

Marco Brizzi, critico d’architettura, moderatore, introduce il tema della serata sottolineando come la Land Art sia fonte d’ispirazione per l’architettura più oggi che negli ani ’60 e ’70 del secolo scorso, quando è nata e rappresentava una tendenza innovativa; d’altronde, è molteplice ed intenso il confronto in corso tra arte ed architettura, come solo in vaghi altri momenti storici è successo.

Aimaro Isola, architetto fondatore di Isola Associati, ha introdotto il suo rapporto di progettista con il paesaggio con il desiderio di fare entrare il verde in città, rompendo la tradizionale contrapposizione di vedute, così, nei suoi interventi di nuova costruzione o di trasformazione, prevale il bisogno non di creare una nuova città ma di continuazione della stessa città, andando incontro al verde (avviene questo nel nuovo quartiere progettato per Reggio Emilia e nella riconversione delle acciaierie di Sestri).

Emblematico di questo modo di operare è senz’altro l’intervento per gli alloggi dei dipendenti dell’Olivetti ad Ivrea, risalente ai lontani anni ’60 ma ancora in grado oggi di stupire per l’elementare forza che possiede: invece che fare un grattacielo trasparente, da cui vedere dall’alto gli stabilimenti intorno, è stato fatto un semianello incassato nel terreno, con al centro un pezzo tanto incontaminato quanto inaccessibile di campagna, gesto minimalista, questo, ripreso nel Centro Studi Fiat di Stuppinigi, dove un grande anello inverdito nasconde alla vista le auto. Sono queste evidenziazioni di momenti della differenza, in cui l’architettura riesce ad emergere dalla natura, proponendosi come segni nella terra. Tutto questo è molto evidente nel Palazzo di Giustizia di Alba, dove è esplicita la volontà di appartenere alla terra, con un progetto tutto introspettivo. In pratica, la terra ed il prato diventano materia di costruzione come altre.

La ricerca di “naturalizzazione” dei luoghi urbani è evidente nei lavori per il porto di Varazze, per Marina di Pisa, per la trasformazione dei Cantieri Orlando a Livorno ed il residence dell’Elba, il 5° Palazzo per Uffici di San Donato Milanese e la sede IBM a Segrate, il Centro residenziale-commerciale per la stessa Carpi, attraverso l’impiego di materiali naturali ed il coinvolgimento diretto della vegetazione. Strettamente coniugata con questi temi risulta, nella lunga ricerca di Isola, il coinvolgimento dei valori storici dei luoghi, una rassicurante contaminazione con l’immagine del passato, fino ad arrivare, nell’intervento di Porta Palatina di Torino, ad atteggiamenti di “neoarcheologia”, riscoprendo il piano romano della città antica. Cercare la “forma urbis” attraverso il ridisegno dei luoghi è l’insegnamento principale dell’esperienza illustrata, protesa all’invenzione di paesaggi, non intesi come cosa idilliaca, ma semplicemente ospitali, accoglienti, amichevoli, domestici insomma, ed in tutto ciò si può trovare una via all’idealità della città.

Andreas Kipar, paesaggista milanese di origine tedesca, ricordando l’affermazione di Ghoethe “l’occhio vede quello che la mente sa”, individua nella mente il luogo del paesaggio, cioè siamo noi, al di là di ogni definizione possibile, è lo specchio della nostra  esistenza, passata, presente, futura. E’ così che si comprende come la recente Convenzione Europea del Paesaggio abbia ridefinito il paesaggio non più con concezioni di merito (brutto o bello) ma estendendo il suo valore a tutta la percezione della realtà, alla nostra quotidianità, in un divenire continuo insomma. Non esistendo più un dentro ed un fuori della città, non più chiarezza di ruoli nel territorio ma solo confusione insediativi, a cui dobbiamo semplicemente abituarci, ne deriva che non è più chiaro dove ci troviamo ad abitare ed a lavorare: quest’incertezza posizionale induce a pensare all’”infinito”. Diventa pertanto necessario identificarsi di nuovo con il proprio territorio, progettare luoghi dell’abitare con identità, nuovi luoghi pubblici, ri-immaginare il paesaggio, in pratica, tornare ad occuparci di quello che c’è sotto casa, perché è subito lì che ciascuno vuole trovare un “albero”.

Illustrando i suoi progetti principali (il grande Parco a Nord di Milano, la riconversione dell’area ex Alfa Romeo ed il Parco Portello, sempre a Milano, un Parco per Krefeld ed il Piano Strategico per Essen, in Germania) emerge chiara una precisa strategia per affrontare il tema progettuale del paesaggio vegetale. Sottrarre, “grattare” simbolicamente il suolo, non per inventare un luogo ma per intuire un paesaggio nascosto, da fare emergere con evidenza: la non forma dei luoghi progettati diventa per se stessa una forma, che si consolida nel tempo mentre cresce e matura come le piante, una “spugna” che assorbe valori ed accresce il valore degli investimenti compiuti, che generano a loro volta ricchezza per gli insediamenti che sono in grado di stimolare nelle vicinanze. Grandi vuoti riempiono i progetti di Kipar, tanto da portare a galla una certa incapacità di vivere il vuoto nella contemporaneità, nella quale si cerca di riempire tutto di tutto: in fondo, è il non costruito a creare gli spazi aperti e lo spazio aperto genera lo spazio urbano che a sua volta stimola la costruzione della qualità nell’edificato. In questo pragmatismo progettuale si può riconoscere tanta saggezza e tanta poesia, ma emerge su tutto una grande umanità: la capacità di riconoscersi i propri limiti, di non rincorrere ideali irrangiungibili dalla nostra imperfezione, perciò una città ideale può essere tale solo perché non può esistere, e ciò ci obbliga a fare i conti con i nostri problemi concreti e non a rifugiarsi nelle provocazioni, qual è considerata Vema.

E proprio Iotti e Pavarani Architetti sono stati tra i venti progettisti invitati a contribuire all’idea di Vema ed hanno portato la loro recente esperienza a Carpi. Partendo dalla lettura della città storica, fatta di strade e di piazze, i giovani architetti reggiani hanno trasfigurato la spazialità urbana tradizionale in un sistema di giardini, per favorire ugualmente la socializzazione in una fusione spaziale tra costruito e luoghi pubblici: la loro difficoltà di fondo è stata immaginare un luogo che non esisteva, diversamente dalle loro attitudini a tentare di dare una risposta poetica a luoghi reali. Il costruito diviene così un’infrastruttura continua, che dalla densità maggiore residenziale della città subisce una rarefazione indirizzata verso il parco aperto, che finisce per avvolgere tutto e dirigere l’attenzione su alti edifici-totem, posti ai margini e affacciati sulla campagna.

Il tema delle relazioni continue appare anche nella loro prima realizzazione, il Monumento alla Pace a Correggio, un oggetto quasi enigmatico che crea nuova spazialità attraverso una rete di relazioni, in parte fisicizzate: l’idea innovativa non ha convinto del tutto gli amministratori cittadini, tant’è che dall’iniziale centro città la sua costruzione si è dovuta “traslare” in un parco cittadino, conservando però inalterata la sua dinamica. Il progetto vincitore per il nuovo stadio di Siena affronta a tutt’altra scala il tema delle relazioni ambientali, pensando un’architettura in grado di essere una grande infrastruttura funzionale. Posto fuori città, a 5km da questa, lo stadio s’immerge nel paesaggio collinare della Toscana, cercando il più naturale inserimento in questo, facendosi in parte progetto topologico, costruzione di paesaggio fin sulla soglia della mimesi. La notevole distanza tra le due polarità, la città e l’arena, è surrogata da un bisogno di visuali reciproche che porta a sottolineare un’evidente estraniazione dei luoghi, dove uno spazio tipico della contemporaneità si confronta con la storia secolare del territorio in maniera “surreale”.


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