Anestesia dello sguardo ed altri inconvenienti

Lo spettacolo, drammatico o estetico, delle  immagini che riceviamo ogni giorno da giornali, riviste, TV e altro produce secondo me una sorta di anestesia della  visione. Succede un po’ come con l’erotismo o la pornografia, le immagini erotiche dell’ottocento oggi ci fanno semplicemente sorridere e ci provocano un sentimento tutt’altro che di eccitazione e scompaiono, in quanto a erotismo, anche di fronte all’ultima delle pubblicità televisive. In cento anni  quindi il nostro sguardo si è anestetizzato e per essere ancora sveglio ha bisogno di qualcosa di più: di più forte, di più spettacolare, di più sconvolgente….

Questo “di più” riguarda tutto il mondo dell’immagine. Immagini più grandi alle mostre, immagini più digitali, immagini più false e più colorate, immagini  più drammatiche e più sensazionali. E’ sufficiente sfogliare velocemente World press photo 2006 per vedere come la soglia  della nostra sollecitazione visiva si sia alzata notevolmente, fino a trasformare la foto giornalistica in una sorta di immagine “pornografica” a cui si chiede di vedere sempre di più, più tragico e più drammatico e soprattutto più da vicino. Vogliamo partecipare al dramma, incrociare col nostro, lo sguardo di chi soffre attraverso l’occhio impietoso della fotocamera. Dobbiamo sconvolgere il nostro occhio addormentato attraverso tragedie umane trasformate in immagine da un sapiente clic da premiare col primo premio. Ma in questo “spettacolo” della visione un ruolo – certamente meno drammatico – lo rivestono anche i libri di fotografia-architettura-città, anche loro fatti di  immagini sempre più perfette-colorate-stupefacenti …a loro volta pornografiche…

Le immagini della città e dell’architettura ci arrivano ogni giorno dalla  televisione: città bombardate e distrutte da uragani o altre catastrofi, ma  anche la meraviglia di città esotiche e templi antichi nel cielo blu, città  grandi, città lontane sempre più grandi e sempre più lontane nei programmi  di viaggio.  E’ qui che nasce la competizione estetica (o frustrazione?)  del  fotografo – produttore di immagini statiche -. L’immagine statica è di  per se più difficile da produrre e da comprendere poiché necessita di una  sintesi molto maggiore dell’immagine  in movimento anche se girata  dall’ultimo dei cameraman. Così per competere col  livello sempre più alto  di shock visivo necessario all’occhio contemporaneo il fotografo rincorre  immagini non solo più drammatiche ma anche esteticamente più spettacolari a  scapito di ogni contenuto. Alcuni esempi?   Il libro di Peter Bialobrzesky Neon Tiger (Hatje Cantz, 2004) trasforma il  drammatico sviluppo urbanistico cinese in uno spettacolo visivo che finiamo per guardare come una sorta di rendering dimenticando che quelle strade e  quei grattacieli esistono e vengono abitati davvero dagli uomini. Luci  stradali e neon, infatti, trattati con lunghe esposizioni, generano visioni  urbane fatte di una moltitudine di scintillanti colori chiari, giallo, rosa,  verde o azzurro. Nessuna presenza umana, cancellata (effetto indesiderato?) dalle stesse lunghe esposizioni. Le immagini ci attirano ma per poco tempo  perché questo spettacolo forte produce quello che chiamo “anestesia dello  sguardo”: ci soffermiamo  qualche istante su ogni pagina di libro, ma alla successiva cerchiamo già l’immagine più spettacolare, più colorata perché l’anestetico entra subito in circolo e  l’occhio si adegua facilmente al  colore “più forte” e al grattacielo “più alto”. A questo  esempio editoriale  possiamo  affiancare  quelli di Robert  Polidori dalle città (Robert Polidori’s Metropolis, Metropolis Books, 2004) agli interni drammatici di Chernobyl (Zones of Exclusion: Pripyat and Chernobyl, Steidl/Pace/MacGill Gallery, 2003) ritratti con altrettanta maestria cromatica. Se in Metropolis, percorrendo le principali città del mondo si sofferma sullo spettacolo maestoso ma inutile degli  edifici  più grandi o stridenti incorniciati da cieli blu o tramonti arancione; il suo sguardo a Chernobyl entra e invade, come altra invisibile radiazione, nelle case e nelle scuole abbandonate subito dopo la tragedia del reattore e “congelate” in quell’istante drammatico dell’abbandono. Fotografa banchi, colori e giocattoli nella loro agghiacciante freddezza e drammaticità dell’assenza di vita. Lo stesso Polidori non si è lasciato sfuggire l’occasione di riprendere le colorate abitazioni del dopo uragano a New Orleans (After the Flood, Steidl Publishing, in attesa di pubblicazione ma visibile in rete) entrando  nelle case devastate dalla furia dell’acqua ma sempre con una grande  attenzione al colore. Questo articolo non vuole essere un elenco di autori che usano lo spettacolo dell’immagine per colpire l’occhio anestetizzato (non sarebbe sufficiente lo spazio a disposizione), ma vorrei invece riportare l’attenzione su una immagine a basso livello di dramma o di spettacolo, andando a cercare quelle  esperienze fotografiche che lavorano sul tema urbano con una visione “di mezzo” leggera e non  seducente. Preferisco immagini in grado di lasciarsi guardare a lungo senza svelarsi subito, capaci di  mantenere un mistero: immagini che non soddisfano immediatamente la nostra voglia di spettacolo,  che indagano anche situazioni ordinarie e quotidiane e che apparentemente non svegliano l’occhio anestetizzato perché hanno bisogno di tempo. Immagini che non si spiegano subito perché non sono  pornografiche.

Come trovare queste immagini? Credo sia  principalmente una questione di tempo! Mi spiego: sugli spettacolari libri stile Polidori o Bialobrzesky,  non riesco a soffermarmi più di qualche secondo per ogni pagina e soprattutto mi passa subito la voglia di rivederli. Sfoglio distrattamente queste pagine che mi sbattono in faccia tutta la loro “bellezza” e la loro spettacolarità colorata, ma che non contengono alcun mistero: allora il mio occhio, (certamente molto più anestetizzato di altri ) non si sveglia, passa alla pagina dopo ma si annoia presto perché in tutto questo spettacolo visivo non succede mai nulla. Più tempo, invece, riesco a passarlo su quelle fotografie fatte da chi produce immagini non con l’occhio ma soprattutto col cuore, da quei fotografi che ricercano con le  loro riprese di produrre sensazioni piuttosto che visioni. Può sembrare paradossale ma credo che un fotografo non debba ragionare solo in termini di immagine perché se la sua scommessa è questa, credo che sia persa in partenza dal confronto col cinema o con la TV.

Il fotografo ha il vantaggio/svantaggio di produrre immagini statiche e come tali dovrebbero essere percepite-analizzate. Il movimento deve farlo chi guarda entrando nell’immagine a ricercare la sua storia: il fotografo ci dice “io da qui ho sentito questo”,  “tu cosa vedi?”, “tu cosa senti?”. In queste fotografie, come guardando un paesaggio reale, ognuno avverte le sue sensazioni registrando le proprie immagini. Per me le fotografie migliori sono quelle che non hanno un senso unico di percorrenza e che non si esauriscono con uno sguardo veloce su di uno scenario fortemente spettacolare,  ma che  alla fine ti lasciano con un “e allora?” Per me le fotografie migliori sono quelle che sono sempre aperte, che si lasciano guardare cento volte e dopo cento volte ti offrono ancora qualcosa senza annoiarti, sono come finestre da  cui entra sempre aria fresca.


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