Building Design: the essential weekly for architects

Paolo e Alberto (fratelli), Mile (Michael), Alireza, Fabrizio e Nicola sono colleghi ed amici. Si conoscono dai tempi dell’università (i primi quattro hanno studiato allo IUAV, gli ultimi due a Firenze). Per diversi motivi ora vivono e lavorano tutti a Londra. Sebbene riescano a vedersi al completo solo in alcune occasioni speciali, ognuno protagonista della propria vita londinese, si ritrovano virtualmente tutti i venerdì all’uscita del settimanale (in formato tabolid) bd / building design: the essential weekly for architects. Economico (£2,90), snello, arrotolabile, completo, al suo interno si trova tutto (articoli, news, commenti, curiosità, annunci di lavoro) ciò che è (per l’appunto) esenziale per gli architetti. Questa conversazione – frutto della fantasia dell’autore – raccoglie alcune considerazioni – realmente dette dai sei amici in singole occasioni – attorno a notizie lette su bd.

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Testata del settimanale Building Design del n. 1730 di bd (14 luglio/2006).

Mile. È da molto che aspetti.
Nicola. No. Sono arrivato adesso anch’io.
Mile. E gli altri?
Nicola. Steve non viene perché parte domani per la Scozia. Domenica è a Glasgow per un matrimonio: si posa un amico con il quale studiava alla Mackintosh School.
Mile. Paolo e Alberto, invece?
Nicola. A momenti sono qui; mi hanno chiamato un paio di minuti fa dicendomi che stanno risalendo la Old Street. E Alireza?
Mile. Sono riuscito a parlargli solo oggi in tarda mattinata. Ha sempre il “citofono mobile” staccato.
Nicola. Lo so. Anch’io non riesco mai a beccarlo.
Mile. Ma sì, da quando lavora per Dixon & Jones ha raddoppiato i tempi di ritardo che lo distinguevano sin dai tempi dello IUAV.
Nicola. Ti ricordi quando è riuscito ad arrivare in ritardo anche il giorno d’inaugurazione della sua personale di fotografia, allestita niente popò di meno che alla Fondazione Bevilacqua La Masa in Piazza San Marco?
Mile. Sì. Solo lui.
Nicola. Bene! Ordino il solito?
Mile. Ja!

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©  arcomai l Viste di alcuni plastici esposti all’ingresso dello studio di progettazione Grimshow Architects.

Mile. Ah, dimenticavo, e Fabrizio?
Nicola.  Ci siamo lasciati mezz’ora fa. Saluta te e gli altri.
Mile. Non viene neanche oggi, vero?
Nicola.  Si scusa ma è indietro con un paper per il dottorato che deve consegnare la settimana prossima.
Mile. Dove siete stati?
Nicola.  Da Grimshow a vedere i plastici.
Mile. Quelli in vetrina?
Nicola.  Sì.
Mile. Come vi sono sembrati?
Nicola. Buoni. Io ero interessato solo a quello per il recente UCL O’ Gorman Building, mentre Fabrizio cercava un particolare costruttivo del Ijoburg Bridge di Amsterdam. Alla fine siamo rimasti lì fino alla chiusura dello studio con grande disappunto della segretaria che sembrava non aver gradito la disinvoltura con la quale ci siamo seduti al tavolo della saletta espositiva per prendere appunti.
Mile. Com’è lo studio?
Nicola. Un silenzio di tomba. Il personale di CSI: Miami è più allegro. Tutti zitti imprigionati e sterilizzati dentro quella cassa di vetro e acciaio. Sembrano che vivano loro stessi dentro un plastico in scala 1 a 1.

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© arcomai l Testa e particolare di una delle immagini della brochure distribuita al pubblico per presentare dell’Urban Oasis alla seconda edizione della Biennale di Architettura di Londra.

Mile. Hai visto che, oggi, il parco è chiuso a chiave?
Nicola. Non ci avevo fatto caso. Come sono riuscite ad entrare tutte quelle persone?
Mile. Non lo so. Hanno sicuramente scavalcato, anche perché – immagino – non li abbiano chiusi dentro volontariamente.
Nicola. Mile, ti ho mai detto perché mi fa piacere quando ci si incontra tutti qui ad Hoxton Square?
Mile. Penso di no.
Nicola. Non è tanto per il locale, che a parte la bella Dzilda non è nulla di eccezionale, quanto per il fatto che da qui si ha lo scorcio migliore della White Cube che ho visto pubblicata per la prima volta sul numero che mi ha fatto conoscere BD.
Mile. Cos’era prima, che non mi ricordo?
Nicola. Credo che prima di diventare una galleria d’arte fosse il deposito di una tipografia. Inizialmente, l’intervento di riconversione prevedeva solo la sistemazione del primo piano in sala espositiva con un piccolo ufficio annesso. Un anno dopo, nel 2001, si è deciso di sopraelevare l’edificio con altri tre piani, il tutto in un arco di tempo di 11 settimane.
Mile. Solo in poco meno di tre mesi?
Nicola. Esattamente.
Mile. Come hanno fatto?
Nicola. Hanno progettato e poi fatto realizzare a Manchester 18 elementi prefabbricati in vetro. Successivamente, li hanno montati a incastro con una gru su una base strutturale precedentemente predisposta.
Mile. Insomma, una sorta di lego?
Nicola. Diciamo di sì. È questo che mi piace di questo intervento: semplice e veloce. Ma dinni, è vero che la rinascita di questo quartiere di Londra è stata generata da quest’opera?
Mile. Non posso dirlo con certezza ma è’ possibile. Se penso a cinque anni fa, quando arrivai a Londra, effettivamente Hoxton è cambiato molto; come anche i prezzi degli affitti, purtroppo.
Nicola. Perchè sei venuto ad abitare qui?
Mile. Sono a pochi minuti dallo studio (ORMS), è un quartiere tranquillo e c’è anche una bella vita notturna.
Nicola. Capisco.
Mile. lo sapevi che MRJ Rundell + Associates ha progettato anche il padiglione temporaneo commissionato dalla White Cube per ospitare la “Klebnikov” di Anselm Kiefer.
Nicola. Ho letto qualcosa.
Mile. Era l’anno scorso proprio in questo periodo. In quei giorni mi ero appena trasferito qui. Per una settimana, tra una mano e l’altra di tinteggiatura, venivo in questo locale a bere una birra.
Nicola. Com’era fatto?
Mile. Una scatola di metallo, collocata proprio lì al centro del parco.
Nicola. Scatola di metallo?
Mile. Per riprodurre la materialità e caratteristiche dello studio francese in cui l’artista aveva prodotto le opere allora esposte, hanno tirato su in pochi giorni un involucro costituito da un leggero frame portante rivestito, successivamente, con onduline metalliche. Proprio una scatola, forata sul fronte rivolto alla White Cube da una enorme portone e in copertura da da un taglio longitudinale attraverso il quale prendevano luce le opere esposte.
Nicola. Cosa ne è stato del padiglione?
Mile. Una volta smontato è stato riassemblato negli Stati Uniti per diventare un padiglione permanente per la stessa collezione ospitata qui ad Hoxton.
Nicola. Guarda stanno arrivando Alberto e Paolo.
Mile. C’è anche Alì.

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© arcomai l La White Cube di MRJ Rundell + Associates a Hoxton Square. Vista dell’headquarter dello studio N. Foster & Associates a Buttersea.  Vista della Urban Oasis, scultura organica luminescente progettata dallo studio Cherwood Associates in occasione della seconda Biennale di Architettura di Londra. Ingresso dello studio David Chipperfield Architects ad Hackney. Edificio anonimo ad angolo tra la New North Road e la Pool Street.

Mile. Finalmente.
Nicola. Abbiamo ordinato anche per voi.
Paolo. Bravi!
Nicola. Ecco lo IUAV di Londra al completo.
Mile. Fabrizio non viene.
Alberto. Lo immaginavamo.
Alireza. Che ci facevi a Shone Square venerdì pomeriggio. Ti ho visto salire sul 55 di corsa. Ti ho chiamato, ma tu non mi hai sentito.
Nicola. Stavo andando a Buttersea ed ero in ritardo perché come al solito ho sbagliato bus.
Alberto. A Buttersea, a fare?
Nicola. Avevo un appuntamento con Olie, il figlio di Aslop, per intervistarlo riguardo ad un film di animazione molto interessante (The Creative Prison) elaborato dallo studio di produzione da lui diretto.
Alireza. Come si chiama lo studio?
Nicola. Squint/Opera.
Alireza. È forse dalle parti dell’headquarter di Foster?
Nicola. Bravo, proprio dietro al Riverside Apartments and Studio.
Mile. La multinazionale dell’architettura.
Nicola. Sì, proprio una multinazionale. Ne ho avuto conferma mentre mi dirigevo alla fermata dell’autobus per tornare a Shone Square. Erano circa le 6 e mezza, mentre attraversavo la piazzetta antistante il complesso, volgendo lo sguardo al suo ingresso, per un attimo, ho visto l’uscita del Lingotto ai bei tempi. I volontari del colonnello Norman uscivamo in silenzio a gruppetti come le reclute della famigerata caserma-car di Montorio Veronese, dove almeno un terzo dei militari italiani di leva obbligatoria sono passati dal dopoguerra ad oggi.
Mile. Appunto, una multinazionale dell’architettura. Nel secolo scorso intere generazioni si sono formate seguendo il carisma dei grandi architetti del moderno, oggi sono questi imprenditori dell’architettura che forgiano a scala industriale migliaia di architetti in tutto il mondo.
Alireza. Si va a lavorare lì non tanto per apprendere l’etica del fare progetto, ma per rendere più presentabile un curriculum con il quale si spera di trovare più facilmente lavoro. Ti pagano poco e rischi di disegnare, per un anno intero, solo maniglie di porte o …
Paolo. Pensavo proprio l’altro giorno a Foster, guardando lo Swiss Re Tower e sono arrivato alla conclusione che The Gherkin (il cetriolino) altro non è che la versione aggiornata della Cattedrale di Saint Paul, tra l’altro poco distante dal grattacielo.
Mile. Cosa vuoi dire?
Paolo. Per tre secoli e mezzo la cupola di Sanit Paul ha dominato Londra, oggi il 30 Saint Mary Axe fa esattamente lo stesso. È il più eclatante esempio di “revisionismo” storico in architettura.
Alberto. È vero, Foster è l’incarnazione di Wren; Norman e Christopher sono la stessa persona. Sopra al suo castello di vetro – come voi sapete – abita il Lord. Da lì, oltre a vedere Londra dall’alto, tiene parcheggiato il suo elicottero – che guida personalmente, essendo anche pilota – con il quale va a visitare i suoi cantieri sparsi per il mondo.
Nicola. Cosa c’entra con Wren?
Alberto. Si dice che Wren durante l’edificazione della cattedrale avesse a sua disposizione una linea personale di barche che lo traghettavano da una sponda all’altra del Tamigi. I mezzi cambiano, ma l’architetto è lo stesso.
Poalo. Mente prima era la cupola di San Paolo, ora è the Gherkin (con i suo 370 metri) il marchio urbano della città. Ogni volta che percorrendo la Kinsland me lo trovo d’avanti per chilometri. È una sorta di ipnotizzatore urbano in questo oceano di casette a schiere. Per me che abito a Daltson da quasi quattro anni, è lui il monumento del quartiere anche se a 4 chilometri di distanza.
Mile. Qui le dimensioni sono altre rispetto a dove veniamo noi.
Nicola. Sin da quando è apparso sulle riviste l’ho sempre visto come il monumento alla tecnica, all’artificialità, alla tecnologia cinica, violenta, aggressiva della modernità. Ogni volta che lo vedo mi sembra non una ma la grande “pallottola”; non un missile ma la stele ammonitrice del progresso. Se ci pensate il missile viene dalla pallottola non dai cetrioli. Per me ha un suo intrinseco valore marziale più che erotico od ortofrutticolo. Ricordiamoci che nasce sulle macerie causate dell’attentato dell’IRA nell’aprile del 1992 che colpi lo storico edificio dell’Exchange. L’ogiva cieca di Sain Paul ha lasciato il posto a quella trasparente del grande proiettile puntato al cielo.

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© arcomai l Montaggio di alcuni titoli apparsi nel n. 1730 di bd (14 luglio/2006).

Nicola. Sempre a proposito di Foster, chi di voi l’ha visto al Millennium Bridge mentre portava un gregge di pecore dall’altra parte del Tamigi.
Paolo. Parli della sua performance in occasione della seconda edizione della Biennale di Architettura di Londra di un mese fa?
Nicola. Of course!
Mile. Io e Alì avevamo un appuntamento con amici che hanno lavorato per il suo studio tempo fa. Ma lui come al solito è uscito tardi dall’ufficio e così ci siamo fermati a Clerkenwell a vedere la Urban Oasis dei Cherwood Associates. I ragazzi ci hanno poi raggiunto, e abbiamo fatto serata lì.
Alberto. Noi due quel giorno eravamo in giro a King’s Cross a visitare alcune mostre in programma.
Nicola. Bravi! Mi pare di capire che eravate tutti in giro per la biennale.
Paolo. Beh, c’erano tante cosa da vedere.
Alberto. Una grande festa popolare. Mancavano solo le piadine romagnole.
Mile. Ragazzi, vi ricordate due anni fa quando Peter Murray s’è inventato la prima edizione della biennale? Pochi avrebbero scommesso su di lui, come confermato dal flop che l’ha distinta.
Mile. E invece ….
Alberto. E invece quel filibustiere del Peter non solo ha raddoppiato, ma ipotecato, con il successo di quest’anno, quella del 2008, anche se sembra non la gestirà personalmente lui.
Paolo. Io non avevo dubbi: quando il titolare di una delle maggiori agenzie di marketing dell’architettura si muove, certo non lo fa per gioco.
Alireza. Ho letto da qualche parte che la pensata di fondare la manifestazione londinese gli venne un giorno mentre era seduto proprio all’Harry’s di Venezia. Assorto con lo sguardo verso la laguna – dice lui – arrivò alla considerazione che la collaudata formula veneziana, per quanto vanti da sempre un’alta partecipazione di stars dell’architettura queste, una volta chiuso il sipario, tornano tutte da dove sono venute e l’evento non ha un impatto sul luogo in sé.
Paolo. Effettivamente non è proprio sbagliato questo ragionamento, indipendentemente dalle modalità con le quali il Peter organizza questo tipo di iniziative.
Alberto. Sono d’accordo con te; la biennale è una bella vetrina allestita per gli altri, e noi cosa viene…?
Nicola. Hai completamente ragione: a Venezia facciamo la biennale per gli altri. Tutti vanno ai Giardini a vedere i padiglioni teutonici, scandinavi, americani, e non certo a vedere quello italiano. Quando poi sei all’Arsenale, anneghi dentro il bagno anestetizzante degli effetti speciali e, una volta uscito dalle Corderie, ti senti stordito come una meteorite che impatta contatto l’atmosfera terrestre. Dove sono? Quando sei lì dentro, potresti essere a Venezia come a Dubai, a Beirut, o …
Nicola. E noi a guardare come dei voyuer.
Mile. Effettivamente da quello che abbiamo visto noi, a differenza della mostra veneziana che raccoglie acrobazie eclettiche da tutto il mondo, questa biennale madeinUK– almeno quella di quest’anno – si è quasi completamente focalizzata su Londra e, insieme alle istallazioni, alle mostre all’aperto, alle feste di strada, è riuscita a fare di questo evento non una manifestazione a Londra, ma per Londra stessa.
Nicola. Io quella settimana sono rimasto blindato in studio per una scadenza, ma Eva mi ha detto che molte mostre sono state organizzate da studi locali a loro spese.
Alireza. È vero. La manifestazione non ha avuto alcun sovvenzionamento da parte del governo, e agli studi è stata data la possibilità di partecipare con iniziative proprie.
Alberto. Certo che questi Inglesi non solo hanno il senso del business ma sembrano anche divertirsi a farlo.
Nicola. Da noi l’architettura non esiste, eppure vantiamo la più importante esposizione internazionale di architettura. È come organizzare il campionato del mondo di golf in mezzo alle dune sabbiose del Saharah.
Alberto. Bravo! Siamo diventati gli sceicchi dell’architettura, a chiacchiere naturalmente. Per noi è un lusso, per gli altri è un’espressione del loro tempo.
Paolo. Il problema è che da noi in Italia non solo l’architettura non ha casa ma tutti ne parlano come se ci fosse.
Mile. … In più, aggiungo, la cosa grottesca è che, in qualsiasi dibattito, tutti sono sempre troppo seri, agguerriti e permalosi.
Nicola. Certo che se Norman si è travestito veramente da pecoraio, allora è un grande. Ci vuole un’enorme faccia tosta e non poco senso dell’ironia a fare gesti di quel tipo. Noi, in Italia, scherziamo su tutto – anche a costo di renderci ridicoli verso gli altri – ma su quello che non c’è, guai a riderci sopra.

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© arcomai l Due viste dal bus (149 proveniente da Kingsland Road) del grattacielo noto con i nomi Swiss Re Tower, 30 Saint Mary Axe o The Gherkin (il cetriolino) dello studio Foster & Partners.

Nicola. Scusatemi per prima se vi ho interrotto, ma dicevate che siete stati a a Clerkenwell Green. Io ci sono tornato ieri sera uscito dallo studio per cercare di entrare per l’ennesima volta dentro la Urban Oasis. Purtroppo, come al solito era occupata: una tipa – che forse non aveva nulla da fare – si è seduta e c’è rimasta almeno fino a quando non me ne sono andato via. Ad ogni modo ho approfittato di questa attesa coatta per riguardare meglio questa sorta di creatura organica luminescente. Certo che è un giocattolino mica da poco.
Mile. L’hai detto!: in cima c’è una turbina che trasforma la forza del vento in energia. Energia che viene prodotta anche da pannelli fotovoltaici montati dentro i petali della palma tecnologica che, insieme ad un generatore di combustibile ad idrogeno, localizzato alla base della struttura, contribuisce a fornire ulteriore fonte di vita a quello che tu chiami giocattolino. Tutte queste energie vengono conservate all’interno di una batteria che è in grado non solo di operare per anni senza alcuna manutenzione,  ma di essere riciclata – dopo il suo percorso di vita – per ben il 95%.
Alìreza. L’acqua raccolta dai petali confluisce in un serbatoio che si trova sotto alla struttura e serve ad irrigare sia le piante che la decorano e l’impianto di condizionamento per la capsula dove viene accolto l’ospite, nel tuo caso la tipa che non voleva uscire. Ah, dimenticavo, l’energia prodotta dalla palma tecnologica alimenta sia degli schermi informativi a cristalli liquidi sia un complesso sistema di illuminazione che di notte regala un piacevole effetto scenografico alla piazzetta.
Mile. Effettivamente è un vero e proprio organismo vivente, una scultura cinetica che si auto alimenta. Il messaggio è chiaro, pertinente e provocatorio, il disegno ben riuscito.

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© arcomai l Le gru lavorano incessantemente nei grandi cantieri nel centro di Londra.

Nicola. Prima che mi dimentichi, sapete chi ha realizzato quell’edificio ad angolo tra la New North Road e la Pool Street di fronte allo Shoredich Park? Mi piacciono i suoi balconi così sparati a freccia.
[silenzio]
Paolo. Che ci facevi da quelle parti? Non è un po’ fuori mano sia da casa che dallo studio?
Nicola. Avevo letto un annuncio interessante qualche tempo fa, e così ho spedito il mio CV ad una agenzia di reclutamento mai sentita sino ad allora. Due giorni dopo mi hanno chiamato la responsabile – che gestire qull’inserzione -e Venerdì scorso sono andato a trovarla.
Alireza. Ah, ho capito quale dici. È quella sopra l’ufficio di David Adjaye Associates?
Nicola. Esattamente!
Alberto. Ma scusa non ti trovi bene a lavorare nello studio di Eva.
Nicola. Sì; ma ho bisogno di cambiare un po’. Ne ho già parlato con lei e mi capisce. Pensa che addirittura mi ha detto che, se voglio, posso tornare in studio nuovamente anche dopo un periodo trascorso in un altro ufficio.
Paolo. Ma cosa avevi in mente?
Nicola. Ci sono grandi studi che stanno già lavorando per le Olimpiadi. Mi piacerebbe fare qualcosina di un po’ più gagliardo, almeno per un annetto.
Alberto. Beh, com’è andata il colloquio?
Nicola. Direi bene, anche se una volta uscito sono rimasto un po’ perplesso.
Paolo. Spiegati!
Nicola. Voi lo sapete come sono quelli delle agenzie. Un sorriso di cortesia, due domande sul curriculum, una sbirciata veloce al portolio e poi bye bye. Dopo aver contatto il loro cliente, se compatibili, ti chiamano il giorno dopo per fissare un appuntamento presso il suo studio.
Paolo. Invece …?
Nicola. Invece stavolta è andata diversamente. Mi ha ricevuto una tipa di nome Svetlana. Sorridente mi ha accompagnato in una stanza e siamo stati a parlare almeno un’ora e mezza, sforando addirittura l’orario d’ufficio. Se non fosse che siamo in estate, direi che abbiamo fatto notte.
Mile. Continua!
Nicola. Niente; il mio profilo sembra combaciare con le esigenze del loro cliente che cerca un Architect Part III con esperienze nella progettazione di poli di interscambio. Non ci crederete, ma per un attimo confesso che avesse strane intenzione.
Paolo. Invece …?
Nicola.  Invece è stata molto professionale e gentile.
Mile. Forse troppo!
Alberto. Ma com’era?
Nicola. Belloccia, rossa, alta, un po’ pallida ma con uno sguardo intelligente imprigionato dentro due occhi scuri perforanti. Dai, quel fascino tipicamente “estivo”.
Alireza. “Estivo”?
Nicola. Ma sì, quel fascino che solo le donne dell’est hanno quando escono dal letargo invernale. Ad ogni modo è stata così kind che, prima di lasciarci, mi ha dato il numero di cellulare dell’ufficio anche se non ne capisco il motivo, visto che lavora tutto il giorno in ufficio.
Alireza. Chissà perché?
Nicola. Perché?
Mile. Please…!

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© arcomai l Montaggio di alcuni annunci pubblicati da studi di progettazione e da agenzie di reclutamento operanti nel campo dell’architettura nel n. 1730 di bd (14 luglio/2006).

Paolo. Tornando alle cose serie, avete visto quanti annunci nell’ultimo numero di BD? Almeno più di 200 e per la maggior parte tutti interessanti.
Alireza. E i cantieri sparsi per la città?
Nicola. Tantissimi! Li conosco tutti.
Paolo. Fai ancora collezione di manifesti di cantiere?
Nicola. Purtroppo sono solo in fotografia. Mi piacerebbe un giorno organizzare una mostra solo dei manifesti di “cose sarà”.
Mile. Potresti chiederlo alla White Cube Gallery.
Nicola. Why not!
Alireza. A parte Foster and Partners, so che cercano personale Rogers, Caruso St Jhone Associates, Chetwoods, Hawkins, Chipperfild,…
Nicola. Buffo, ero da Chipperfild proprio ieri. Avevo chiamato perché avevo bisogno di parlare con Zampieri, ma non c’era, così la segretaria mi ha passato una collega belga che mi ha detto che non lavora più lì da quando è tornato in Italia e ha aperto un suo studio a Milano.
Mile. Come si chiama la tipa?
Nicola. Manon.
Paolo. Forse ho capito chi è. Prima lavorava per Silvestrin sulla Kingsland? Parla italiano?
Nicola. Sì. Il padre è italiano e lei ha lavorato per un periodo nello studio di Dominique Perrault a Milano.
Paolo. Beh, non è male la “tosa”.
Nicola. Dici? Abbiamo iniziato a chiacchierare e poi ho buttato lì un invito fuori. Le ho dato appuntamento allo Jaguar shouse per domani sera.
Alberto. Operativo, intraprendente, emiliano…!
Paolo. Allora eri ad Hackney. E non sei venuto a trovarci in studio.
Nicola. Lo sai cosa succede. Io e Steve iniziano a parlare delle questioni riguardanti il restauro del moderno; lo studio si blocca e poi ti …
Paolo. Va bene ma …
Nicola. Ah, ecco sta arriva da bere. Avete visto che sorrisi mi fa la Dzilda?…

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Stralcio della retro-copertina del n. 1730 di bd (14 luglio/2006).


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