Incontro luce: un percorso fotografico tra l’architettura e la luce

La luce giusta

Nei suoi proclami rivoluzionari di “Verso una architettura” (1920) Le Corbusier scriveva: “Gli occhi sono fatti per vedere le forme nella luce” […] “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi nella luce” o ancora “Architettura è stabilire rapporti emozionali con materiali grezzi”. Se l’architettura ha certamente conosciuto una evoluzione nel corso del secolo XX° non altrettanto può dirsi della fotografia di architettura che sembra avere ignorato le possibilità contenute nella definizione della parola stessa “fotografia” (letteralmente “scrivere con la luce”).

La luce offre, all’interno o all’esterno, di un’architettura infinite varietà cromatiche e di percezione dello spazio nel corso delle 24 ore e nello svolgersi delle stagioni quando il sole  a diversa altezza sull’orizzonte disegna ombre e colora luci di infinite e varie  sfumature… Ed è proprio di queste sfumature e variazioni percettive che il fotografo dovrebbe riappropriarsi nella sua scrittura con la luce  trovandosi di fronte ad una architettura. Ma anziché sfruttare il proprio linguaggio fatto di luce, il fotografo professionista al momento della ripresa sembra automaticamente (inconsapevolmente?) imprigionarsi in un cliché che nulla ha a che fare coi “rapporti emozionali” possibili entro i “volumi nella luce”. E così la sua abilità si realizza piuttosto nella capacità di cercare la “luce giusta” affinché tutti i dettagli siano leggibili ed i valori plastici dell’oggetto enfatizzati, meglio se incorniciati da un cartolinesco cielo blu, che nella possibilità di lasciarsi trasportare dalle sensazioni luminose cromatiche e spaziali. In pratica il fotografo negli interni si trova  a dovere correggere le difformità luminose a colpi di flash producendo così ambienti piatti e privi di ombre, mentre negli esterni si sottomette ad estenuanti attese affinché il sole, girando, (perché per il fotografo è il sole che gira..) crei luci e ombre così precise  da sembrare disegnate…

Questa ricerca della “luce giusta” unita alle acrobazie per la ricerca “del punto di vista”  contribuiscono a quella paralisi della visione di cui abbiamo iniziato a raccontare in Appunti per una visione instabile e a cui nessun fotografo sembra volersi (o potersi?)  sottrarre. Si può uscire da questa schiavitù della luce? della  ricerca della “luce giusta” la cui finalità  principale sembra quella di riportare l’architettura realizzata alla tavola di rendering dipinta con Photoshop? Alcune risposte ce le offrono  due grandi fotografi  Luigi Ghirri e  Joel Meyerowitz che hanno fatto della luce e delle sue infinite mutazioni un punto fondamentale delle loro ricerche nella fotografia di architettura e di città e che, nonostante gli anni passati, mi sembrano ancora di estremo interesse e attualità.

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© oscar ferrari-arcomai| Interno della Villa La Roche-Janneret.

LUIGI GHIRRI (da Fotografare i luoghi fotografare le architetture, intervista di Mario Lupano in Paesaggio Italiano, quaderni di Lotus, Milano, 1989).

[nella domanda precedente si parla del cimitero di Modena di Aldo Rossi fotografato per Lotus su incarico di Vittorio Savi]. M.L. “Quindi adempiendo a questa commessa ti sei trovato a confrontarti con gli statuti del genere fotografie di architettura? “.

L.G. La fotografia di architettura è soprattutto un atto di autentificazione dell’opera. Com’è noto, c’è un processo che comincia con il disegno progettuale, attraversa le fasi che ben conosciamo e si risolve nel manufatto.Il manufatto viene autentificato dalla fotografia. Questo percorso produce lo stereotipo “fotografia di architettura”, che mi sembra ormai davvero logoro. Più che autocertificare la “visione” dell’architetto, il mio sguardo e il mio approccio vorrebbero svelare aspetti e funzioni segreti e restituire un’immagine del vissuto dell’architettura. Comunque non credo che fotografando l’architettura io abbia dovuto mutare le mie coordinate espressive. Il mio procedimento è analogo a quello che seguo in altri lavori su committenza o progetti autonomi, personali, autocommissionati.

[alcune domande più avanti si legge…] M.L. Potresti in poche parole riassumere il procedimento con cui hai fotografato la stazione (si parla dell Edificio Viaggiatori della stazione di Firenze) o qualsiasi altra architettura e avanzare alcuni elementi di poetica?

L.G. Sempre più mi rendo conto che fotografare architettura necessita di una consapevolezza, un tempo di attuazione molto dilatato. Tradizionalmente cosa fa il fotografo? Va in un luogo, guarda come gira il sole, ci ritorna…cerca l’immagine, che dovrà essere il più possibile in asse perfetta, regolare, incisa, dove tutto si dovrà vedere… E in queste fotografie non succede mai niente. Ma l’architettura vive, vive di sottili e affascinanti mutazioni spaziali e di tempo, anche atmosferico. Io di solito tendo a costituire un sistema di visione. In questa idea di rappresentazione rinvengo di volta in volta le modalità operative. Mi interessa lavorare per sequenze riferite a ciascuna minima variazione che fa vivere l’architettura. Così per esempio fotografo nelle varie ore del giorno, per evidenziare come la luce modifica e trasforma, per operare raffronti tra l’architettura nella luce del mattino, nella luce del crepuscolo o nel buio della notte, oppure per verificare come viene vissuta.

JOEL MEYEROWITZ (citazioni tratte da: Francesco Zanot, Il momento anticipato, Joel meyerowitz Richard Misrach, Edizioni della Meridiana, Firenze, 2005).

“… in entrambe (riferito alle ricerche Provincetown Porch e Bal Sky sequenze di immagini realizzate dalla sua veranda a Cape Cod e che hanno come soggetto principale l’oceano) l’attenzione si sposta dallo spazio rappresentato, essenzialmente costante, all’azione della variabile temporale si di esso, causa di sostanziali alterazioni luministiche e cromatiche: lo scorrere delle ore dei mesi e delle stagioni trasforma uno scenario pallido e uniforme nella tavolozza di un pittore espressionista, poi lo tinge di rosa e d’azzurro con l’approssimarsi del crepuscolo, e di nuovo lo vela di marrone quando nell’aria si diffonde l’odore di un violento acquazzone”. (p.82)

[Riferendosi alle fotografie sul Gateway Arch di St. Luis  (1977-80)]. “Ma non è soltanto la forma perfetta del Gateway Arch ad attrarre e commuovere Meyerowitz, e neppure la sua gigantesca scala, (…) il fatto è che come la vista che si gode dalla veranda di Provincetown, esso è in costante mutamento. La sua levigata superficie d’acciaio reagisce prontamente a ogni minima variazione dell’inclinazione dei raggi solari, riflettendo con estrema esattezza le più tenui sfumature del cielo. Dà l’impressione di possedere una vita propria di essere parte del paesaggio naturale. Capita che nel giro di qualche minuto divenga da celeste a rosa, da chiaro a scuro, da opaco a brillante come uno specchio. Pur ostentando un’innegabile monumentalità. Allo stesso modo di ogni cosa che gli sta intorno è effimero e momentaneo: un colossale arcobaleno fatto di cemento e acciaio”. (p.115)

Un auspicio Credo che queste intuizioni, così chiare e precise, andrebbero raccolte e sviluppate e non solo per la ricerca artistica ma potrebbero essere applicate a quella fotografia – che chiamiamo professionale – finalizzata alla “documentazione” dell’architettura che trova spazio su libri e riviste. Sarebbe auspicabile che un raggio di luce toccasse il mondo dell’editoria di settore per affiancare alla scrittura di parole una vera scrittura di luce, con immagini personali e meno asettiche, e per provare a stabilire anche attraverso le immagini “rapporti emozionali con materiali grezzi”.


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