L’architettura del movimento

In occasione del dibattito aperto a Bologna sul suo futuro legato al miglioramento della mobilità, la “scuola barcellonese” ha tenuto banco al terzo appuntamento di Bolognasimuove, portando una ventata di intraprendenza ed un poco di autocritica.

Sono più di 150 gli interventi di “agopuntura” urbana che negli ultimi dieci anni sono stati eseguiti, in parti ammalorate della città di Barcellona, dallo staff di progettisti coadiuvati da Josef Acebillo, in qualità di Direttore dell’Agenzia per lo sviluppo metropolitano Barcelona Regional: sono l’evidenza di una strategia di riqualificazione che fa procedere in parallelo la ricostruzione sociale con quella fisica della città. Interventi che si muovono nel percorso di trasformazione da città industriale a città postmoderna del neoterziario, dell’era del digitale, nel tentativo di interpretare ed imparare a prevedere le vere trasformazioni in corso, che è il compito principale dell’architettura. E’ così che è stato presentato, dal Presidente dell’Ordine degli Architetti, ai convenuti nell’Aula Magna di Santa Lucia in Bologna per la sua lezione magistralis, come quarto appuntamento di Bolognasimuove, sabato mattina, 20 maggio.

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© arcomai l Il Professore Roberto Grandi, Prorettore dell’Università di Bologna, ha introdotto il tema dell’architettura del movimento premettendo l’indispensabilità del movimento d’intelligenze, di pensieri e di confronti, quali manifestazioni più elevate dell’entropia che caratterizza da sempre i fenomeni urbani. Dal momento che la nostra vita attiva si svolge in continuo movimento ne deriva che “noi siamo il nostro movimento”, ossia è la modalità attraverso cui acquisiamo “autocoscienza di noi”: è così che viviamo, contaminando ed essendo contaminati a nostra volta, dai luoghi in cui ci muoviamo di continuo e siamo determinati dai movimenti che compiamo.

Le città sono vissute, sono essenzialmente delle strutture di relazione, generate dai movimenti e stimolate dalle nostre sensorialità. Nei movimenti che compiamo effettuiamo una lettura ipertestuale dei luoghi, operando in maniera selettiva e soggettiva nel grande “testo” della città, generando in tal modo una miriade di modi diversi di vedere la stessa città, dal momento che sempre mutevoli sono i suoi punti di vista. La città è pertanto la risultante di un processo di costruzione che intreccia di continuo l’apporto individuale con quello collettivo, avendo di conseguenza un’”identità variabile”. Parlare pertanto di persistenza dell’identità dei territori è assai aleatorio, perché significa individuare, in un processo dinamico inarrestabile, un preciso momento storico cui assegnare un’essenza particolare, relativizzando tutto il resto, arbitrariamente: in questo modo, c’è da chiedersi cosa sia e dove riconoscerla oggi la “bolognesità”, ed è l’esempio calzante che ha evidenziato Grandi.

L’identità dei luoghi può essere vista, in un’ottica “essenzialista”, come un processo da costruire di continuo, un progetto “verso cui andiamo”, da cui emerge la rilevanza della responsabilità che tutti abbiamo di vivere autenticamente la contemporaneità. Questo processo di continua ridefinizione è particolarmente stimolato dai momenti di crisi e da cui si generano gli stimoli per il cambiamento, e la crisi che stiamo attraversando non è tanto una materiale ma più che altro crisi d’idee, tant’è che a volte il territorio attuale è visto con ostilità, tanto da far pensare a logiche di “coprifuoco” o ad enclave fortificate-sorvegliate. In definitiva, le città si muovono con noi, variano di continuo prospettiva, gli sguardi sono mutevoli: è così che cambiano, a volte senza che ce ne accorgiamo neppure, ed il compito dei progettisti-urbanisti è quello di ridefinire gli sguardi, saperli riscrivere, non da un punto fisso, ma in movimento.

Josef Acebillo ha esordito, intrudendo la sua lezione, definendo a modo suo la città soprattutto come l’espressione di un fatto economico, caratterizzata da valori simbolici, e la Bologna turrita ne è per lui un esempio lampante. Dal suo punto di vista, tutte le città europee hanno gli stessi problemi ma bisogna cercare soluzioni diverse per ognuna: Barcellona e Bologna possono pertanto essere viste in analogia, entrambe debbono trovare le proprie soluzioni. Allora c’è da chiedersi se sia possibile, come ha fatto la città catalana che dagli anni ottanta ha iniziato il suo riscatto urbano, riguadagnando rapidamente un rapporto vitale con la linea di costa ed il mare che la fronteggia, pensare che Bologna possa reinventarsi immaginando un nuovo rapporto con il suo “mare verde”, che la lambisce su un fronte fino a toccarne il cuore storico (dal momento che buona parte delle pendici sono oramai da tempo pienamente urbanizzate e che parte della retrostante collina è di fatto“privatizzata” o di difficile fruizione pubblica, sfruttando atteggiamenti progettuali e tecniche di costruzione attuali, rispettose dell’ambiente, senza avere anacronistiche posizioni conservatoristiche, superate dai fatti e dai bisogni).

“L’architettura è l’unica attività in grado di preservare l’identità dei luoghi” ha suonato come un’affermazione antiglobalista in grado di riscattare la parte più sensibile e poetica della disciplina, senz’altro riconoscibile in molti interventi recenti di Barcellona ma che nello scenario bolognese potrebbe echeggiare in maniera assai distorta ed ironica, stante la nostra recente “tradizione”. I cambiamenti urbani sono dovuti essenzialmente alla complessità dei nuovi flussi, per cui se una città come Bologna era importante e florida in conseguenza della posizione dominante sulle rotte dei flussi commerciali dal secondo millennio, ha visto invece lo stesso organismo urbano in posizione arretrata e marginale nell’epoca dell’industrializzazione del secolo scorso, ma nell’era postmoderna in cui ci siamo infilati la stessa città può avere di nuovo molte possibilità di riscatto, dal momento che la localizzazione fisica diventa secondaria, a favore della qualità ambientale complessiva, nonché dei servizi disponibili e di una non trascurabile realtà intellettuale-universitaria ancora presente.

Il riuso della città diventa pertanto imperativo, poiché siamo investiti non da una crisi evolutiva, tutt’altro, ma da un’incapacità strutturale ad adeguarsi alla nuove realtà: la necessità del cambiamento urbano deve strutturarsi quindi sulle nuove tecnologie, anche dei trasporti, sul potenziale dell’informatica. “Lost in translation” sembra rappresentare per molti, tra cui anche Acebillo, una condizione diffusa dei nostri tempi in cui riconoscersi, in cui le persone sono erranti per vasti territori ed in questo vagare contemporaneo l’ospitalità di Bologna, un tempo proverbiale, dovrebbe essere in grado di “riposizionare” la città con evidenza, sfruttando maggiormente le potenzialità dell’aeroporto internazionale e del nodo ferroviario-autostradale di transito.

La deterritorializzazione, ossia l’indifferenza insediativa che contraddistingue molte attività vitali dei nostri tempi, induce alla “relatività del luogo rispetto al movimento fisico”, tanto da rimettere in discussione molte delle logiche pianificatorie ancora praticate, troppo lente e statiche per cavalcare la frenesia dei tempi, presenti e futuri. Emerge pertanto la preminenza del progetto sul piano, ossia da convinzione che la “trasformazione non si pianifica” ma si è solo in grado di proiettarla in uno scenario territoriale: le procedure del piano sono troppo lente comunque rispetto all’estrema velocità di mutazione delle attività immateriali proprie del terziario avanzato, per cui dare troppo importanza al piano potrebbe significare “perdere il treno” del cambiamento (in pratica, immaginato un progetto valido per la città, questo deve trovare di conseguenza l’immediata possibilità di realizzazione, a prescindere dalle indicazioni del piano). “Pensiamo prima al progetto, poi al piano” è quasi uno slogan che l’urbanista catalano ha affermato, proponendo una pratica nella quale centrale è il progetto di disegno urbano, che porta a continui aggiustamenti i livelli pianificatori.

Sono cinque le “aporie urbane” evidenziate da Acebillo: la localizzazione determinista dello zoning (che irrigidisce le possibilità insediative), l’impatto negativo delle infrastrutture pesanti (che andrebbero allontanate dalle città o celate), la bassa densità (che equivale alla difficoltà di ottimizzare i servizi, all’autoritarismo territoriale), il grande spreco d’energia (dovuta anche al malfunzionamento urbano), l’incompatibilità manifestata tra le infrastrutture ed il disegno urbano (da cui le difficoltà d’intermodalità). Altri aspetti critici appaiono, sempre secondo il relatore, l’abuso della storia nella contemporaneità (che fa preferire di gran lunga la conservazione sulla trasformazione del patrimonio), l’abuso dell’high-tech (che rende alteri gli interventi architettonici, mentre sarebbe da preferire una tecnologia si sofisticata ma ben dissimulata), il “paesaggismo epidermico semplicistico” (che vede il territorio come soggetto romantico da preservare in maniera a-critica nei confronti della contemporaneità), il concettualismo a-funzionale (che tende a rendere indifferenti gli interventi architettonici sia al contesto che al contenuto).

Il Rinascimento ha rappresentato un’esperienza di lavoro sulla città formidabile: si sono ricostruite e riqualificate le città provenendo da un lungo periodo di forte crisi, semplicemente sovrapponendosi al passato, procedendo per stratificazioni, e questo dovrebbe essere preso a modello per i processi di trasformazione che ci aspettano.

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© claudio zanirato-arcomai l La recente riqualificazione del Mercato di Santa Caterina a Barcellona, per opera dello studio Miralles-Tagliabue, ha consentito di valorizzare anche una parte degradata della città storica, senza cancellare il valore degli edifici e degli spazi preesistenti ma semplicemente coinvolgendoli in un’immagine ed una funzionalità aggiornata, con evidenza di ruoli reciproci.

Se per molti urbanisti internazionali la “ricetta” per garantire le condizioni per un sistema urbanistico efficiente sono quattro (F.I.R.E.), cioè Finanza-Sicurezza-Qualità Immobiliare-Impresa, la preoccupazione manifestata da Acebillo, facilmente condivisibile, è l’aggiunta di “ingredienti” essenziali quali il coinvolgimento della “nuova economia”, la verifica attenta della sostenibilità ambientale-energetica, l’intensità localizzativa degli interventi. La città dev’essere vista come un sistema aperto, dove le infrastrutture interagiscono di continuo con l’architettura, considerando l’infrastruttura non tanto un problema dell’ingegneria bensì della disciplina architettonica, e ci viene da chiederci allora chi progetterà le nuove infrastrutture di Bologna, le strade, le ferrovie, le stazioni, i parcheggi…

Un’altra sottolineatura è stata posta sul bisogno di “progettare la densità”, ossia di cercare di individuare la giusta “massa critica” che deve raggiungere ogni intervento architettonico urbano, pensando quindi ad una nuova “topografia della densità”, a nuove tipologie capaci di sostenerla, alle forme d’ibridazione funzionale. Sul piano della mobilità, tema della lezione, è stato ribadito come il problema comune a molte città, tra cui Bologna, è soprattutto l’accessibilità in tutte le sue parti vitali: la strada dev’essere vista pertanto come un luogo di vita e non una soluzione di “idraulica” dei flussi o di mera pianificazione urbanistica, giacché  l’importante non è tanto arrivare ma riuscire a fermarsi (cioè parcheggiare, cambiare vettore). Il grado d’accessibilità pregiudica i valori urbani degli insediamenti, anche se la facilità e l’indifferenza delle reti delle fibre ottiche garantiscono, in altro modo, livelli d’accessibilità non più esclusivi. Un primo contributo alla soluzione del problema potrebbe essere dato dal ridisegno dell’attuale sistema del traffico, in pratica l’ottimizzazione di quello che già c’è, ridefinendo le intensità dei flussi, ed anche trasformando le stazioni in veri scambiatori intermodali.

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© claudio zanirato l L’originario intervento di riqualificazione dello svincolo di Plaza de las Glorias di Barcellona ha sfruttato la sopraelevazione stradale per contenere un parcheggio di auto anulare con al centro un giardino pubblico: l’isolamento forzato del luogo pubblico non ne ha incoraggiato l’uso, ed oggi è il fulcro di una delle più importanti trasformazioni urbane, avviate con la realizzazione della torre degli uffici Agbar di Jean Nouvel , alberghi ed uffici amministrativi della città previsti, che contempla anche l’interramento di parte della viabilità e la creazione di un’ampia area verde in superficie, rialzata.

Altro elemento progettuale ritenuto indispensabile per il buon funzionamento urbano è lo sfruttamento in profondità del suolo cittadino, dal momento che intensi flussi di traffico in superficie o in sopraelevata sono fonte di “attriti” e di separazione insostenibili: la città deve essere quanto più concepita come una stratificazione profonda, e questo rimanda direttamente ai concetti di padri del modernismo (il controllo pubblico del sottosuolo diventa pertanto di gran lunga più importante della pianificazione del suolo e del suo regime). Un esempio emblematico in tal senso lo ha portato Acebillo, spiegando come il primo intervento realizzato a Barcellona per lo svincolo di Plaza de las Glorias, più di 15 anni fa, si sia dimostrato fallimentare (per cui se qualcosa non funziona è meglio cambiare quanto prima) e di come si sta lavorando su un nuovo progetto di completa ridefinizione, portando in sotterranea la maggior parte possibile di viabilità, anche con innalzamenti delle quote dei giardini e degli spazi pubblici immaginati.

La creazione di suoli artificiali può essere una soluzione capace di risolvere problematiche ambientali, come quelle affrontate progettando la ”esplanade” di Barcellona, coprendo e mascherando un’area già occupata da un grande impianto di depurazione delle acque e conquistando ettari di terreno al mare per un grande parco urbano attrezzato. Con queste logiche, gli edifici devono essere visti come degli iceberg, ossia delle emergenze dal suolo urbano cui corrispondono delle radici in profondità nel suolo. Oppure, nella realizzazione della nuova circonvallazione più interna alla città catalana si è progettato una strada stratificata, con i flussi veloci di solo attraversamento in trincea e affiancando la viabilità di quartiere a livello urbano: l’occasione dello scavo ha consentito di creare anche un lungo cunicolo di servizio per tutti i sottoservizi, di facile ispezionabilità e modificabilità. Di certo, questi sono interventi assai costosi, ma a quanto pare in Spagna si affrontano con spirito finanziario molto lineare: la municipalità anticipa i costi degli interventi, nella certezza della loro bontà e della loro capacità di diventare subito degli elementi di qualificazione a tal punto da attirare nuove attività economiche, favorite dal rinnovato asseto urbano, che produrranno a loro volta incrementi degli introiti fiscali per ammortizzare parte degli esborsi iniziali.

L’urbanità è ritenuta una qualità da perseguire tramite l’educazione in genere, e multiculturale in particolare, per migliorare l’integrazione sociale, anche con programmi d’edilizia sociale indirizzati verso tale finalità: la qualità dello spazio pubblico si carica pertanto anche di questa valenza, e le particolarità urbanistiche di Venezia e Bologna possono essere assunte come paragdimatiche.

La complessità urbana non dovrebbe spaventare, perché è anche segno di stabilità, di reversibilità delle funzioni, favorisce le fluttuazioni in un’isotropia densa di valori: ed è proprio negli spazi interstiziali della città compatta che risiedono i punti chiave per il suo rilancio futuro. Il progetto urbano si fa pertanto un progetto frammentato, in cui non importa tanto la sua dimensione ma i suoi elementi di relazione, le giunture tra le parti. Con la stessa logica, il “riciclaggio” del patrimonio edilizio esistente diventa un’altra occasione di miglioramento della città, superando la logica sterile del mantenimento asettico ma promuovendo il confronto schietto tra il vecchio ed il nuovo. Il piano degli interventi edilizi per Barcellona individua nettamente tre tipologie d’intervento, d’entità simile: conservazioni, trasformazioni, nuove edificazioni, strettamente interalacciate tra loro. Queste strategie di riqualificazione urbana dovrebbero innescare fenomeni d’interattività: sono i nuovi interventi, le nuove costruzioni, a cambiare l’intorno e non già il contrario, con un “effetto riverbero” sulle parti di città coinvolte.

La dimensione metropolitana degli agglomerati urbani non dev’essere vista come una realtà del tutto positiva, ma come occasione di governo di una visione policentrica della città, operando delle gerarchie frammentate, delle caratterizzazioni di parti per specializzazione, proponendo pertanto una “geografia differenziale”, in cui il territorio è visto come un mosaico composito (Land Mosaic). Il “neometropolismo” prefigura quindi uno scenario urbano simile ad un arcipelago, nel quale le emergenze (clusters) si relazionano tramite corridoi e dove si può intervenire con operazioni, anche piccole, di “agopuntura” per far nascere nuove isole.

Finita la “lezione”, un poco storditi, forse qualcuno si è accorto che nella ricca giornata si è avvertita una illustre assenza: Oriol Bohigas, l’architetto-urbanista catalano cui si deve l’avvio di questo esemplare processo di rinnovamento urbano, attivato dagli anni ’80 a Barcellona, ed cui ancora si deve molto insegnamento oggi, in Spagna e nel resto dell’Europa, ma forse molti hanno avvertito comunque la sua presenza.

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© claudio zanirato l L’area pubblica dell’”esplanade” di Barcellona, posta nel punto di confluenza dell’Avenida Diagonal con la linea di costa, è stata di recente riconquistata alla città coprendo l’impianto di depurazione con un suolo artificiale sul quale sono stati realizzati dei rilevanti spazi pubblici: il Forum cittadino (su progetto di Herzog&DeMeuron), alberghi, spazi espositivi e direzionali, piazze e giardini (ricavando anche molti ettari dal mare), garantendo una parziale autosufficienza energetica con uno spettacolare impianto fotovoltaico, in grado di fornire il 40% dell’energia necessaria; la collocazione urbanistica del macrointervento e la scarsa qualità progettuale e costruttiva di alcuni interventi non hanno consentito di raccogliere gli sperati consensi, per cui l’ambizioso programma è stato sospeso dalla municipalità a circa metà del suo compimento.


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