La qualità imposta

Questo contributo documenta il seminario internazionale – svoltosi al Teatro Manzoni di Bologna nei giorni 22-23 novembre – dal titolo: “Qualità dell’Architettura contemporanea nelle città e nei territori europei”. Dagli interventi di alcuni dei relatori che vi hanno partecipato sono emersi spunti interessanti che mi mettono nella condizione di esporre considerazioni critiche nei confronti del tema in oggetto e delle modalità con cui si pensa di migliorare l’architettura nel nostro Paese.
Promosso dalla Regione Emilia-Romagna insieme al DARC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), l’evento è stato caratterizzato dalla melensa commiserazione per una ‘qualità’ inspiegabilmente svanita e da ri-trovare a tutti i costi, ma al tempo stesso euforica ed autocelebrativa – soprattutto da parte dei rappresentanti italiani – perché tutti hanno dato soluzioni definitive per poterne incrementare lo sviluppo, forti anche della ‘Legge quadro sulla qualità architettonica’ (disegno approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 luglio 2003 il cui iter parlamentare è attualmente in corso).

Premesso che (dal mio punto di vista) il sostantivo ‘qualità’ associato all’architettura mi sembra più un parametro per la Guida Michelin – con cui segnalare ai turisti un edificio D.O.C. da fotografare – o un ISO-termine – necessario a salvaguardare un prodotto agro-alimentare minacciato dal mercato globale – che il termine più indicato per indicare ciò che in passato veniva eventualmente integrato con l’aggettivo ‘buona’, perché espressione di un modo responsabile di ‘fare governo’ del territorio, della politica, della cosa pubblica. Sono convinto, pertanto, che impostare il dibattito sull’architettura contemporanea in questi termini possa creare equivoci e malintesi.

Queste perplessità sono state da me manifestate (come pubblico) nelle battute finali della seconda giornata in programma, facendo notare come tutti i nostri relatori connazionali che si sono alternati durante il corso del convegno si siano trovati unanimi – seppur partendo anche da posizioni diverse – nell’affermare come sia “difficile definire la qualità architettonica” anche se tutti, poi, hanno dato soluzioni per poterla ottenere, saltando proprio quel passaggio critico, che dovrebbe essere precedente a quello propositivo, qui sintetizzabile con la domanda: “stiamo parlando di architettura o di edilizia di qualità”? Il fatto, poi, di aver cercato di spiegare questa loro indecisione con la semplice deduzione che nel nostro Paese c’è carenza di vera architettura contemporanea e che per almeno trent’anni è stato escluso proprio il referente principe (l’architetto) all’interno del processo produttivo, ha creato un po’ di imbarazzo agli ospiti presenti al consesso.

Nel mio intervento ho sottolineato però come l’arch. Piero Orlandi (Assessorato Programmazione Territoriale della Regione E-R) – introducendo la L.R.16/2002 / ‘Norme per il recupero degli edifici storico-artistici e la promozione della qualità architettonica e paesaggistica del territorio’ – sia stato l’unico che, nel far riferimento ad una ‘qualità standard’ dell’architettura, abbia in qualche modo dato margini di concretezza alla discussione. Dato per concesso che possa esservi una ‘architettura minima’ sotto la quale non dover scendere, sarebbe interessante però capire se con standard si intenda una sorta di IKEA-URBANA a cui tutte le città europee dovrebbero adeguarsi.

Il responsabile della Divisione Arti del Ministero dell’Educazione e Cultura del Governo Finlandese Sign. Rauno Anttilia – portando solo due esempi: un edificio residenziale a falde e un attrezzo ludico per bambini, il tutto inserito in un tipico paesaggio nordico – ha forse voluto dimostrare che la ‘qualità’ non è altro che la risposta a particolari esigenze di una determinata comunità in un determinato luogo. Con la stessa misura sono stati presentati esempi da Chantal Dassonville (Amministrazione Generale delle Infrastrutture del Ministero della Comunità Francese a Bruxelles), da Herma de Wijl (Ufficio Governativo degli Architetti dell’Olanda), Flora Ruchat-Roncati (Università di Zurigo). Ciò che invece Noi abbiamo saputo mostrare orgogliosamente sono stati i fanta-progetti dei concorsi vinti da Massimiliano Fuksas che, nel presentarli lui stesso, ha poi concluso la sua performance serbando per la sala lo scoop sulla nuova Cittadella Ferrari a Maranello, accompagnato da alcune foto del cantiere, così da arrivare al solito made in Italy come ‘palliativo’ a tutti i problema del nostro Paese.

E qui arriviamo al nocciolo della questione, anticipata dal titolo di questo contributo, e lo faccio criticando senza mezzi termini ciò che è stato prospettato da Raffaele Sirica (presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti) che nel suo intervento, facendo riferimento al disegno di legge del 24 Luglio 2003, dichiarava: “è possibile attivare, anche nel nostro paese, con la rete degli Ordini, e in piena sintonia con le Istituzioni, quel processo di ‘democrazia urbana’ già consolidato in Europa: attraverso i concorsi, associare amministratori, professionisti e cittadini al fine di realizzare il diritto fondamentale di tutti ad un ambiente fatto di architettura di qualità. Si possono così recuperare, nel nostro paese, cinquant’anni di architettura interrotta”. Riflettendo su queste ultime parole, credo proprio che ci si trovi di fronte ad un madornale malinteso.

A parte che a tale ‘interruzione’ hanno contribuito in modo rilevante proprio gli Ordini – con la loro inerzia ed incapacità di fare delle loro sedi la ‘casa’ in cui incontrarsi, discutere ed far crescere l’architettura – ma poi puntare tutto sulla pratica concorsuale non mi sembra la strada più idonea a rendere democratico un processo che forse necessita di puntare sulla creazione di un nuovo ‘alfabeto’ critico, minimo e iniziale, capace di far registrare cambiamenti a catena per una nuova alleanza tra chi progetta e la società civile. Tralasciando, infatti, i criteri normalizzati con cui vengono valutati i progetti vivisezionati per percentuali, l’idea democratica a cui fa riferimento Sirica è spesso rappresentata da una ‘pluralità limitata’ poiché ai concorsi più rilevanti molto spesso la partecipazione è circoscritta a pochi atelier selezionati, mentre a quelli open pochi sono gli studi medio/piccoli che si possono permettere il lusso di parteciparvi; inoltre le giurie scelte sono spesso composte in modo da accreditare programmi di urban marketing promossi dalle amministrazioni locali; i ‘magistrati’ di oggi saranno i ‘giudicati’ del concorso successivo; e per finire, sebbene chi partecipa alle competizioni crede in un confronto leale super partes, convive sempre con il ragionevole dubbio che forse alla fine vincono sempre ‘i soliti sospetti’.

Ma la cosa più deleteria che questa ‘politica democratica’ sta creando, con la complicità di chi gestisce l’informazione non solo in architettura, è l’adozione del sensazionalismo come strumento-matrice dei processi di trasformazione: arma mediatica attraverso cui attivare grosse operazioni commerciali e legittimare task-forces di specialisti a cui delegare ‘chiavi in mano’ il futuro delle città europee. Progettare e gestire le modificazioni della città contemporanea non può e non deve essere una ’emergenza’ mediante la quale creare i Robin Wood dell’architettura, i super eroi della metropoli globale. È così che la nostra categoria viene spaccata in ‘buoni’ e ‘cattivi’ dell’architettura; è così che una minoranza elitaria monopolizza il rinnovamento a cui gli altri non possono partecipare se non in modo marginale; è così che si concede all’editoria di settore (con tutti i suoi ‘conflitti d’interesse’) di condizionare l’immaginario collettivo e la politica del progetto nelle diverse realtà locali e non. In tutto questo viene da chiedersi: “Dove sono e cosa fanno le università e gli ordini per superare questo disagio?”. E ancora: “E’ possibile che la normativa debba sostituirsi al progetto?”. Ma soprattutto: “perché permettiamo tutto questo?”

Le trasformazioni vanno concordate nel loro insieme attraverso un apparato concettuale che tuteli ed integri le competenze tra chi pianifica assetti, chi elabora piani urbanistici e progetta architetture, affidandosi principalmente oltre che alla dovuta contingenza delle situazioni locali, al livello culturale, alla capacità, alla sensibilità delle diverse figure che operano in un territorio, a chi, amministratore, le mette in gioco. Se si riesce a garantire queste condizioni si emancipa e responsabilizza la classe che governa un determinato territorio creando le condizioni per muoversi secondo un ‘disegno’ comune focalizzato a realizzare ciò che realmente serve ad una comunità evitando sprechi od operazioni di cui i cittadini non ne beneficiano concretamente. Spiega bene le cause di ciò che io qui denuncio Carlo Olmo che, nelle prime battute del suo intervento alla tavola rotonda che chiude il seminario, dice: “…le riviste hanno dato troppa voce ai vincitori e non ai vinti che sono la maggior parte di chi produce architettura”; e parlando del tema del convegno aggiunge: “…qualità è un processo che si raggiunge solo se si unisce un conflitto tra attori”.

Quindi ‘conflitto’ – non ‘sentenza’ inappellabile di una giuria di pochi – e allora sì ‘processo’ ma critico, qualcosa che forse la giuris-prudenza non potrà mai normalizzare nei suoi ‘disegni di legge’. La questione del concorso come strumento per ottenere qualità sembra non aver convinto neppure Pippo Ciorra che dice, riferendosi probabilmente all’exploit di Fuksas: “… chiunque faccia un progetto crede di realizzare qualcosa di qualità”, a significare che la questione è ben più seria: “…la qualità è una metafora, il vero problema è la quantità di buona architettura” […] “… la questione è in sostanza che le nostre città – quelle dei centri commerciali, dei centri direzionali, dei parcheggi – ecc. funzionano benissimo anche senza architettura ” […] “… c’è bisogno di buona architettura che diventi identità e ciò si può ottenere solamente cercando di costruire insieme la capacità di ristabilire una dialettica sull’architettura, un dibattito chiaro e responsabile su cosa si deve fare”. Queste dichiarazioni saranno da lì a poco riprese da Marco Casamonti che dice: “la legge cerca di stimolare ciò che non si vuole, ciò che non è richiesto” e quindi da Fulvio Irace che nel ribadire il concetto aggiunge: “…abbiamo bisogno più che astuzia legislativa di formare un’opinione pubblica sul tema della qualità […] in questo le riviste possono divenire il supporto per definire queste opinioni” […] “… basta con il sensazionalismo, c’è bisogno di un approccio critico all’architettura” […] “… di una qualità del mondo dell’informazione attraverso cui capire dove stiamo andando e creare un supporto su cui costruire una pratica critica” […] “… c’è bisogno di un nuovo linguaggio, di una nuova forma di comunicazione che sciolga l’enigma dell’architettura in poche battute”.

Quindi identità, dialettica, responsabilità, opinioni, critica, linguaggio e comunicazione, tutti termini che escludono ‘divieti e permessi’ della politica della normalizzazione. C’è la necessità di lavorare di più sulla cultura del progetto che sugli articoli; riscoprire quella componente critica verso il progetto e il suo tempo che tanto ha influenzato generazioni di architetti e prodotto stagioni irripetibili per l’architettura; solo così si può riportare l’architettura ad una dimensione viva e costruttiva tale da renderla rappresentativa del percorso di una società all’interno della propria stagione.


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