La fotografia ci dice ”quale e quanta” architettura c’è in Emilia-Romagna. Ma basterà a …?

Si è inaugurata martedì sera alla GAM (Galleria d’Arte Moderna) di Bologna la mostra – che rimarrà aperta fino al 13 novembre – dal titolo: “Architettura in Emilia-Romagna nel secondo Novecento” a cura di Mario Lupano e Piero Orlandi. L’allestimento, ad opera della GAM stessa, propone un accurato “censimento fotografico”, realizzato dall’IBC, degli edifici più significativi che – come dice Orlandi, nell’introduzione del catalogo dall’emblematico titolo “Quale e Quanta” e che fa da supporto al materiale esposto – raccoglie “…appunti visivi che costituiscono l’avvio di un impegnativo lavoro di riconoscimento e promozione del valori dell’architettura del Secondo Novecento nella regione”. Il materiale esposto è costituito principalmente da “campagne fotografiche”, elaborate da 11 professionisti dello scatto, ma anche alcuni disegni originali, plastici e fotografie provenienti dagli archivi di alcuni “maestri” dell’architettura italiana che hanno operato sul territorio regionale. I curatori della mostra si sono avvalsi anche di materiale video.

20051013_01

© arcomai l Allestimento della mostra

Questo ambizioso progetto, nato nell’ambito delle attività promosse dalla L. R. 16/2002 per la valorizzazione dell’architettura contemporanea e realizzato con la collaborazione di una commissione scientifica formata da docenti dalle Università di Bologna e Ferrara, ha portato alla catalogazione di circa 200 edifici che insieme dovrebbero dare un “volto architettonico” ad una regione piuttosto povera di opere rilevanti. Si tratta di una operazione senza dubbio coraggiosa poiché tenta di raccontare cinquant’anni di storia delle nostre città attraverso un viaggio (a caccia del “contemporaneo”) tra le periferia “non più periferiche” delle province emiliano-romagnole a dimostrazione – come sostiene Orlandi – “…che gli architetti (non) abbiano creato forme e immagini estranee al valori della società in cui hanno operato” e che il “Compito di questo lavoro è appunto contribuire a diffondere una diversa valutazione dell’architettura e del suo ruolo nella costruzione della città”. A tale proposito così scrive il Prof. Ezio Raimondi (Presidente Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione E-R) nella sua introduzione al volume: “E ciò che risulta subito chiaro è che in Emilia-Romagna, pur non mancando esempi di eccellenza e edifici realizzati da maestri come Gio Ponti, Aldo Rossi, Carlo Scarpa, Melchiorre Bega, Giuseppe Vaccaro solo per citarne alcuni, la cifra dominante sembra essere quella di una medietà stilistica che si dispiega in un tessuto diffuso di molte opere di buon livello, quasi come in un coro bene intonato”. Concetto questo che Orlandi spiega con queste parole: “Così come è stata la terra della piccola e media impresa si direbbe che l’EmiliaRomagna è la terra di una certa medietà architettonica (parlando sempre del Novecento, s’intende), che si esprime in un considerevole numero di buoni edifici, e in una sorta di aspirazione alla quantità della qualità”.

E’ quindi l’Emilia-Romagna la terra della “quantità omologata” dell’architettura in Italia? E’ l’eccezionalità di alcune buone opere di architettura a classificare questa con la “A maiuscola” o è la “quantità media” diffusa di esperienze “minori” a decretarne lo standard regionale? Con “qualità” ci si riferisce alla “architettura” o alla buona “edilizia”? Queste ed altre sono le domande che mi verrebbero in mente di chiedere ai curatori della mostra e alle quali credo sia impegnativo anche per loro dare risposte esaustive. Infatti ogni qual volta si affronta il tema scottante del “contemporaneo” si finisce sempre a discutere sulla “qualità” architettonica – termine adottato con troppa disinvoltura da chi si muove all’interno del dibattito architettonico nel nostro paese – e mai su tutte quelle “qualità” (politica, economia, istruzione, sapere, …) che condizionano profondamente il processo produttivo del “costruito” nel nostro paese. È la astrattezza di questa parola – eroina-fantasma anche in questa iniziativa – che può creare equivoci non solo sul piano prettamente teorico ma anche su quello di intervento; è nella ambiguità del “dire tutto e non spiegare nulla” che si corre il rischio di alimentare un processo per cui “tutti ne parlano ma nessuno sa di che cosa si parla”, “tutti sono d’accordo” ma pochi hanno un’idea chiara e determinata per tentare di aggiornare in Italia una “cultura del tempo” capace di affrontare le scottanti questioni del “contemporaneo”. In “La qualità imposta” di due anni fa avevamo già avuto occasione di manifestare queste perplessità che, oggi più che mai, si ripresentano qui a Bologna con le stessa indeterminatezza di allora.

 

20051013_02

© arcomai l Allestimento della mostra

Sono profondamente convinto che la grande sfida per rendere fertile il dibattito sul contemporaneo si debba giocare sul piano della comunicazione/propaganda mediante il quale far comprendere che l’architettura è lo strumento principe di modernizzazione per il paese. Bisogna costruire un dialogo quotidiano e costante con i mezzi di comunicazione, mettersi al servizio del grande pubblico cercando di spiegare i meccanismi che legano il “progetto” e la sua realizzazione alle dinamiche politico-economiche di un determinato territorio, di raccontare la storia recente della città italiana e spiegare i rischi che corre oggi se non si provvede al più presto ad un cambio di rotta, il tutto evitando di appiattire la discussione solo sugli aspetti meramente visivi, formali e omologa(n)ti. Parlare esclusivamente con le immagini è al tempo stesso facile e pericoloso; ciò che bisogna fare adesso è non rimanere in superficie ma entrare dentro le questioni del presente in modo da alfabetizzare un’opinione pubblica oggi disorientata e disinformata e quindi incapace di distinguere i veri problemi che legano il “fatto urbano” con la vita di ogni giorno.

Essendo questa mostra basata esclusivamente su materiale fotografico, ci chiediamo se, in questo contesto, la fotografia – e principalmente quella professionale – sia lo strumento più indicato a trasmettere significati e rispondere ai quesiti che il nostro mondo chiede con urgenza per poterlo migliorare. Più che “quale e quanta” mi verrebbe da chiedere “come e perché” la conoscenza del Made in E-R si esaurisce qui con la “narrazione” del tutto singolare, libera, non co-ordinata degli 11 artisti che sono stati invitati a raccontare in un apparente comune percorso fotografico la nostra architettura? Dov’è il fattore tempo: quel parametro che dà significato all’opera dell’uomo almeno in architettura? Che senso ha ritrarre il cornicione di un palazzo? Dov’è la città, la vita, il quotidiano? Perché escludere a priori il rapporto contestuale con la vita privilegiando scatti presi all’alba quando gli spazzini sono già passati sulle strade ed è ancora presto che vengano sporcate dalle persone con il loro stare o muoversi? Dove sono gli interni: quei frammenti di vita che dimostrano che un edificio non è solo una facciata presa di sbieco ma un sistema che ha a che fare con le persone? E poi: può l’occhio professionale del fotografo aiutare a conoscere e far conoscere l’architettura? “E’ la fotografia che dà qualità all’architettura?” E ancora: che non sia essa stessa in alcuni casi anche forviante, bugiarda, manipolatrice? E infine: è’ giusto accollare sulle spalle del fotografo questa grande responsabilità?

Il materiale esposto in mostra è sicuramente il frutto di un lavoro impegnativo dal quale però non emerge quella “cultura” del locale che dal dopoguerra ad oggi ha determinato lo sviluppo delle città in E-R. Infatti guardando le foto si percepisce sì una “presenza” ma questa è una “entità” invisibile, latitante e ambigua come l’eredità che ci ha lasciato, così inutile e inutilizzabile per poter costruire una nuova stagione in grado di superare oggi gli errori del passato. Questa overdose di immagini sembrano normalizzare un panorama, un territorio, una regione; riescono a cancellare anni di polemiche, contraddizioni anche aspre della nostra storia recente. Il Made in E-R è il frutto di un “monopolio” mono-direzionale che per cinquant’anni ha governo una regione.  Se giriamo per le città della “collana” – che si sviluppa con un passo di 30-40 Km l’una dall’altra lungo la Via Emilia – è facile trovarne conferma. Arriviamo così a comprendere che la medietà stilistica di cui parlava Raimondi e la quantità della qualità di Orlandi sono la stessa cosa. La fotografia può contribuire alla ricerca critica in architettura, ma deve essere affiancata, guidata, verificata da persone, competenti in materia di critica non solo architettonica, che sappiano anche vedere ciò che c’è al di fuori della disciplina, ciò che è dietro o dentro gli edifici perché l’architettura oggi più che mai ha bisogno di essere comunicata attraverso la conoscenza/esperienza dell’uomo più per come appare.

20051013_03

© arcomai l Allestimento della mostra


Back to Top