Frammenti urbani. La vita nella città vista da giovani fotografi

Si è tenuta a Bologna dal 5 al 25 agosto presso la Sala d’Ecole di Palazzo d’Accursio (municipio) la mostra di fotografia “Frammenti di vita urbana / Urban life shots”. L’iniziativa nata dal gemellaggio tra la Accademia di belle Arti di Bologna e lo SFASI (San Francisco Art Istitute) è stata promossa, organizzata e curata dai professori Gianni Gosdan (Accademia) e Mariella Poli (SFAI). ARCOMAI è stato all’inaugurazione e oggi pubblica un’intervista al Prof. Gosdan.

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 © arcomai l L’allestimento della mostra.

Nicola Desiderio. L’insegnamento della fotografia nelle Accademie italiane.

Gianni Gosdan. Nelle Accademie di Belle Arti italiane l’insegnamento della fotografia è previsto solo come attività complementare ad altri insegnamenti. Anche la recente riforma non prevede alcun aumento di “peso” di questa materia all’interno di un percorso di studio sulle arti visive. Siamo l’unico dei grandi paesi in Europei che non ha, a livello universitario, un percorso di studi specifico per la fotografia. Questa situazione non è però, a mio modo di vedere, del tutto negativa; i nostri studenti spesso riversano nella fotografia stimoli visivi e culturali tra loro molto diversi, riuscendo ad ottenere spesso risultati sorprendenti, poco convenzionali proprio perché generalmente poco istruiti nello specifico sui modi e i linguaggi della fotografia contemporanea. Sono però contemporaneamente molto aperti  e informati sulle arti visive in generale e hanno una buona propensione per la ricerca e la sperimentazione.

 

N.D. Come nasce l’idea del gemellaggio che ha portato a questa mostra e perché “frammenti di vita urbana”?

G.G. E’ stato un incontro fortunato. Avevo già proposto, all’inizio dello scorso anno accademico, ai miei allievi, di lavorare sul tema di una “giornata” a Bologna. L’incontro con la Poli e la sua proposta di una mostra congiunta con questo titolo è stato uno stimolo molto gradito. “Frammenti”, dal mio punto di vista, sottolinea bene la parzialità del nostro sguardo e l’ovvia impossibilità di esaurire l’argomento.

 

N.D. La fotografia dedica oramai da tempo grande attenzione al tema della “città”. In quali termini è’ – secondo te – ancora attuale questo tipo di approccio/indagine?

G.G. In tutto il 900 la fotografia è stata pervasiva, ha dedicato grande attenzione praticamente a tutto. In occidente gran parte delle popolazioni vive nelle città, tutta l’arte in generale ha trovato nella città il luogo per eccellenza dove potersi esprimere.

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 © arcomai l L’allestimento della mostra.

N.D. Nello specifico della mostra riesce ad emergere la “urbanità” (più che la “immagine”) di due città così diverse e lontane tra loro e – se esistono – quali sono gli elementi comuni?

G.G. Globalizzazione? In fondo la grande scommessa di questa mostra era probabilmente quella di verificare quanto due città e due gruppi di fotografi così distanti tra loro potessero ancora essere genuinamente diversi. A mio giudizio sono emerse di più le differenze tra due “scuole” e solo qualche individualità particolarmente forte.

 

N.D. Dalle foto scattate a Bologna sembra che gli studenti abbiano cercato di raccontare la vita della città attraverso la “monumentalizzazione” di alcuni dettagli del panorama urbano (arredo, oggetti comuni, percorsi pedonali, …), il “ritratto” rubato di gesti del quotidiano, la “manipolazione” (tecnica e volutamente ironica) di quegli elementi o visuali che caratterizzano la città. Si può dire che analizzando complessivamente questi “frammenti” si sia proceduto ad una sorta di “decontestualizzazione” del “fatto urbano” che in qualche modo può far riflettere su una città che forse non conosciamo poi così bene?

G.G. Probabilmente è vero. E’ comunque indubbio che i lavori esposti non avessero nessuna intenzione di “mostrare” Bologna a chi non l’avesse mai vista. Al contrario possono aiutare chi la vede tutti i giorni a riscoprire altri sguardi, nuove attenzioni verso un panorama visivo troppo spesso dato per scontato o già visto.

 

N.D. Confrontando i lavori esposti emerge un fattore piuttosto interessante: mentre la “città americana” qui rappresentata avrebbe potuto dialogare con lo sky line della nostra periferia, questa a sua volta è stata quasi pressoché ignorata dai ragazzi dell’Accademia. Infatti, sebbene solo 60.000 abitanti vivano nel cosiddetto “centro storico”, si è preferito questo come “palcoscenico” per raccontare la vita bolognese. Secondo te questa scelta può essere spiegata col fatto che il “centro” rappresenta ancora nell’immaginario comune la città e che la “periferia” è qui praticamente assente perché la viviamo (ci viviamo) di più di un “centro” che (a parte specifiche occasioni/necessità) è sostanzialmente attraversato?

G.G. E’ un aspetto che avevo rilevato anch’io quando ho cominciato a vedere i primi lavori preparatori della mostra. Le spiegazioni possono essere molte, ma quasi tutte legate a delle contingenze. Essere uno studente a Bologna molto spesso vuol dire abitare in centro e passare gran parte della giornata in zona universitaria, anche i luoghi di incontro serali sono concentrati nel centro storico. Inoltre l’”urbanità” è spesso sinonimo di densità umana, strade piene di persone e stimoli visivi. Per quanto auspicabile, uno sguardo fotografico rivolto alla periferia, una ricerca visiva che aiuti a conciliare una situazione abitativa spesso vissuta come un ripiego, non è stata una scelta molto frequente tra i nostri ragazzi. Propongo io una domanda, se avessero fotografato prevalentemente la periferia in che cosa queste immagini sarebbero state diverse da una qualsiasi altra periferia europea?

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 © arcomai l L’allestimento della mostra.

N.D. Mi verrebbe da dire in nulla. Ho girato parecchio in Europa e credo di aver fotografato prevalentemente periferie. La maggior parte della popolazione europea vive oramai da decenni in città e più precisamente nelle loro aree cosiddette “periferiche” che a loro volta sono divenute nuove “centralità” e “catalizzatori” di vita. Erroneamente ancora oggi si tende a vedere la periferia come la sola/stessa di 30-40 anni fa. Eppure questa è cambiata ed oggi è composta da tante “unicit(t)à” che se lette con attenzione scopriamo essere i capitoli di un grande libro, i “volumi” della più completa enciclopedia sulla nostra “cultura contemporanea” (storia, politica, economia, sociologica, antropologia, urbanistica, …). Dovendo riflettere su tutto ciò che ho visto in giro per le città europee, direi che si può riconoscere un “(ri)tratto” comune che lega molte realtà urbane anche se geograficamente lontane tra loro, una sorta di “sky lineMade in Europe che ha come comune denominatore il “grigio/grigiore” (l’asfalto per strade e marciapiedi, il cemento per edifici, ponti e cavalcavia…) prodotto dall’ingegneria  civile (il “braccio armato” dell’urbanistica) e non dall’architettura come in modo superficiale viene dall’opinione pubblica giustificato (in Italia) il cosiddetto degrado della nostra periferia. È la “scala di grigi” della “progettazione convenzionale” che rende le nostre città molto simili tra loro – Gabriele Basilico insegna con le sue foto in B/N -; che omologa il territorio mono-strutturandolo; che genera una “luce soffusa/diffusa” (anche di notte) in grado di mettere paradossalmente a proprio agio – dando un senso di “familiarità” – chi le attraversa anche per la prima volta. Ma se poi guardiamo con più attenzione proprio le fotografie che ritraggono questi luoghi, allora vediamo il “piano” – o meglio le generazioni e varianti di “piani” che hanno trasformato le città in questi ultimi decenni – e scopriamo che le periferie sì possono avere un “volto” comune, ma questo è costituito da molteplici “profili”. Credo che in questo processo di “normalizzazione” sia vittima anche il fotografo che è costretto (nella costruzione spaziale dell’immagine) a [ri]prendere la realtà secondo un “colpo d’occhio” in qualche modo imposto dalla struttura/logica della pianificazione. E’ così che la fotografia contribuisce a veicolare spesso una visione standard delle aree sub-urbane omologandole secondo un cliché che proprio perché modello pre-confezionato rassicura invece di porre dei dubbio: ciò che è “uguale” dà sicurezza, mentre il “diverso” spesso fa pensare e quindi è meglio non considerarlo; ma questo è un altro discorso…

N.D. Non credi inoltre che nei riguardi della città italiana vi sia la possibilità per la fotografia di una ricerca che si rivolge al “centro” con lo stesso occhio critico – se no addirittura più attento, pertinente e disinibito – con cui si è guardata sino ad ora la città fuori dai limiti de lo enclave storico?

G.G. Credo che in fondo questa distinzione tra centro e periferia sia fuorviante. Appartiene più alle categorie dell’architettura e dell’urbanistica. Questi sono temi poco familiari ai nostri studenti più invece culturalmente preparati a proporre ricerche visive molto personali e orientate prevalentemente al momento espositivo. Lavori quindi che, nei migliori dei casi, suscitano reazioni emotive, propongono visioni più profonde di una intellettuale presa di posizione.

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 © arcomai l L’allestimento della mostra.

N.D. Sono assolutamente d’accordo con te. E’ per questo che ho associato la parola “centro” (tra virgolette) alla “città fuori dai limiti de lo enclave storico” e precedentemente ho tentato di spiegare che dietro al termine “periferia” esistono diverse periferie. Devo però anche confessarti che purtroppo noi architetti continuiamo per pigrizia e necessità di comunicazione ad usare un linguaggio (tra noi e tra gli altri “addetti ai lavori”) codificato e vecchio anche se forse le mie domande e le tue risposte dimostrano che c’è bisogno di lavorare ad un nuovo lessico in grado di aggiornare il modo collettivo di guardare la città.

N.D. La fotografia – come dimostrano anche alcuni dei lavori esposti – è oggetto oggi di contaminazioni esterne di tipo digitale (grafica, animazione, …) che trovo particolarmente interessanti perché oltre ad esprimere conoscenze/esperienze individuali/estranee alla fotografia ne mettono in discussione il dogma elitario ed accademico che l’ha sempre distinta. Si può dire che la realtà come quella “naturalmente” impressa sulla pellicola non basti più a raccontare il mondo di oggi?

G.G. Non credo che non basti più, direi piuttosto che le nuove tecnologie permettono di ampliare gli orizzonti, rendono più semplici tecniche di fotomontaggio e ritocco che hanno da sempre attraversato la storia della fotografia, già dall’ottocento. E’ anche vero che negli ultimi decenni nel mondo della fotografia si è sempre più manifestata una “crisi di realtà” indipendente dalle tecnologie digitali. Lo stesso è anche accaduto nelle altre arti visive, forse più in generale in tutta le società madializzate dell’occidente. Non a caso le foto a cui ti riferisci sono state scelte da tutti i quotidiani bolognesi per illustrare la mostra….

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© arcomai l L’allestimento della mostra.

N.D. Che cosa emerge di nuovo da questi lavori sul piano della originalità e del linguaggio?

G.G. Non essere dei professionisti della fotografia è, in questo caso, sicuramente un vantaggio. Avere la possibilità di esprimersi a 360° in uno spazio espositivo così prestigioso è una occasione rara. Devo dire che sono molto soddisfatto dai lavori che abbiamo portato in mostra alla Sala D’Ercole. In questi tempi mi sono tornate spesso in mente le belle mostre che si facevano a Bologna negli anni ’80. Quando il Comune invitava maestri della fotografia di fama mondiale a fotografare la città secondo la loro personalissima sensibilità. Era una iniziativa intelligente e di grande lungimiranza. Sono immagini che andrebbero riproposte in una mostra, potremmo scoprire tante cose interessanti e magari ritrovare nuovo slancio perché una stagione così propositiva si possa ripetere.

 

N.D. Cosa ti attendi dalla mostra che all’inizio del nuovo anno rivedrà insieme le due scuole dopo questa bella esperienza di Bologna?

G.G. A gennaio dovremmo riproporre la mostra a San Francisco. Mi auguro che abbia tanti visitatori e l’interesse dei media  come è stato a Bologna. Purtroppo probabilmente non ci sarà neanche a San Francisco l’incontro tra gli artisti che tanto ci è mancato a Bologna. Il problema è sempre il solito, no money.

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© arcomai l Mariella Poli (sinistra) e Gianni Gosdan (destra). Foto di gruppo dei giovani artisti.

 

Le opere esposte in mostra sono di: Matthias Brandt, Lesile Clements, Zack Fontaine, Anselm Skogstad, kija Lucas, Ben Miller-Rios, Julian Philips, Natalie Ray, Kelly Richardson, Tommy Sullivan, Andrei Wingler, Lisa Delendati, Jhonathan Gobbi, Zaira Greco, Naiara Herrera, Ho Yu Ku, Elèonore Josso, Felix Koltermann, Giuliano Marras, Arta Ngucaj, Peter Pietrus, Cristina Sandri, Mario Sgotti, Rossella Traglia.

 


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