Il tocco del Diavolo colora di rosso il grigio dell’ingegneria civile

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© | www.nio.nl. The Touch of Evil.

Si è inaugurata lunedì 6 giugno 2005 presso la galleria SESV dell’Università di Firenze (www.sesv.net), la mostra dal titolo SNAKE SPACE. NIO architecten, curata da Marco Brizzi e prodotta da iMage, viewpoints on architecture (www.image-web.org). L’istallazione, pensata per essere itinerante, rimarrà aperta al pubblico fino al 24 giugno 2005, per poi trasferirsi alla Triennale di Milano (1-24 luglio) e successivamente al VIVID di Rotterdam (29 luglio-4 settembre).

Sviluppata sui due livelli della piccola galleria fiorentina, l’istallazione molto sobria, come le architetture qui esposte, presenta al pubblico italiano il lavoro di Maurice Nio (fondatore dello studio NOX architects di Rotterdam) e lo fa con la selezione di alcuni dei progetti che l’architetto dedica da anni agli spazi – qui definiti – “tecnici” come tanti altri sparsi per il mondo. A tale proposito così si legge nel piccolo catalogo di supporto alla mostra edito da Mandragora (Firenze, 2005): “By the concept of technical space we mean (Dutch architects) all those places in our urban landscape where people normally do not hang around for long or that people sometimes cannot enter at all: dumping sites, highway, car parks, industrial estates, tunnels, viaducts, sound barriers etc. Almost all the projects that we have realized and that we are working on are related to technical spaces, and time and time again we want to inspirit, to breathe new life into the vacant, often nondescript and sometimes purely functional technical space. Our method, our strategy, is to provide the soulless with soul”.

È quindi in questi luoghi della città, e/o appena fuori da essa, che si concentra la ricerca progettuale di Nio; è in ambiti urbani come questi, spesso trascurati dal punto di vista compositivo e simbolico, che l’architettura ha la possibilità di riscattare il ruolo istituzionale che le spetta; è intervenendo dove non è richiesto, perché la politica del governo territoriale non lo chiede, che il progetto può tornare ad essere strumento di identificazione/appartenenza; è dall’analisi di queste esperienze che si possono ricavare suggerimenti utili a re-interpretare luoghi della contemporaneità che proprio perché “tecnici” devono essere i baluardi da cui attivare una ri-lettura dell’ambiente urbano che non sia solo espressione del soddisfacimento funzionale dei bisogni del nostro tempo.

Il termine Snake space sintetizza bene quel sistema di luoghi generati dai flussi, dalle reti – fatte di assi, collegamenti, percorsi – entro il quale fluisce/scorre quotidianamente la vita collettiva nella città contemporanea. Non a caso, è stato proprio un vero serpente il protagonista del giorno che ha inaugurato l’evento. Infatti, lasciato per alcune ore libero di strisciare dentro uno dei due tavoli dell’istallazione – coperto/mappato dalla stampa di un paesaggio immaginario/artificiale – il rettile ha simulato la mobilità dell’uomo dentro il suo spazio vitale. Costretto a seguire le correnti imposte dai percorsi, a scivolare lungo i corridoi urbani, a sbattere contro ostacoli e a schivarli alla disperata ricerca di uscire dal labirinto, di orientarsi, di raggiungere la meta agognata – magari seguendo la strada più breve e sicura -, l’animale ha disegnato e poi ri-disegnato una mappa, ha ri-percorso un itinerario molto simile a quello che ognuno di noi quotidianamente è solito coprire dentro il proprio intorno comportamentale. La scelta, per i giorni successivi all’inaugurazione, di sostituire il rettile con una famiglia di oggetti robotici (automatici) non solo non sminuisce il forte significato simbolico – che qui si vuole comunicare – ma, anzi, ci aiuta ad aprire il campo ad ulteriori riflessioni.

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© arcomai l Le mappe disegnate simulano la trama di percorsi attraverso il quale è regolato il sistema logistico della città contemporanea e quello comportamentale di chi l’abita.

Il serpente siamo noi dentro li nostri meccanizzati (auto, metro, tram, bus, treni) e lo snake space è il medium attraverso il quale il territorio viene attraversato, percorso, usato. La texture in cui viviamo è figlia della mobilità che non è una caratteristica esclusiva della strada, ma dell’intero concetto di una comunità mobile, precaria e frammentata. La logica/logistica ingegnerista ri-taglia il territorio in tanti distretti, zone, pezzi, slarghi, slabbrature allo stesso modo con cui ri-taglia le relazioni sociali – e con esse ciò che rimane dell’oramai compromesso continuum urbano della città europea – per poi tentare di ri-cucirle proprio con gli stessi mezzi che ne hanno determinato l’allentamento. E allora le città appaiono ovunque uguali, semplificate, sintetiche, normalizzate, perché le macchine che veicolano cose e persone vengono prodotte con gli stessi criteri/requisiti. Ciò si riflette in una sorta di democratizzazione sociale in cui le diversità vengono annullate per poi essere, paradossalmente, ri-vendicate soprattutto dal cittadino/autista (modello, colore, dimensione, status symbol,..) nel momento in cui diventa un tutt’uno con il suo medium su ruote. Ma il processo è reversibile all’infinito e non si conclude qui. Infatti, è con altri strumenti, questa volta, repressivi (il codice, le regole, le limitazioni, le penalizzazioni) – pensati dall’uomo per tentare di correggere/contenere i suoi errori – che si ri-dimensiona il tutto, ri-portando ordine dentro il sistema. È in questi passaggi di andata&ritorno che avviene l’omologazione del territorio e la sua mono-rappresentazione. Le strade non delineano più luoghi ma generano spazi interstiziali privi di significati urbani, perché è, essenzialmente, il tessuto sociale/relazionale a mancare.

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© arcomai l Alcuni particolari dell’installazione. Quali relazioni tra il sistema logistico-funzionale e quello sociale?

Questa condizione non può che produrre un’architettura che erroneamente viene definita anonima, ma che in realtà non esiste perché non ce ne è bisogno; non è pensata; non è richiesta. Ciò non è giustificabile dal semplice fatto che essa eventualmente sarebbe difficilmente visibile dalla strada, ma perché è l’ingegneria che comanda il tutto, che disegna con cinismo il paesaggio funzionale e visivo di questi ambiti. Non è casuale che tutte le città oggi si assomiglino non solo nelle loro forme e modalità d’uso ma anche nel loro essere/apparire che è quella mono-cromatico del cemento, dell’asfalto, delle balaustre, dei marciapiedi, dei lampioni, delle pensiline, delle barriere anti-rumore, dei guardrail. Non è neppure, come alcuni dicono, che l’architettura più istituzionale non ha le parole né i modi per esprimersi o, come altri, invece, fa comodo credere che la città contemporanea sia fatta di spazi senza volto. L’ambiente collettivo ha un proprio indiscutibile volto; il motivo per il quale non ce ne accorgiamo è dovuto dal fatto che esso è sempre lo stesso ed è quello grigio disegnato dalla logica tecno-economica dell’ingegneria civile che produce sempre, ovunque e allo stesso modo autostrade, incroci, rotatorie, sparti-traffico, parcheggi, pensiline, distributori, tunnel, viadotti, capannoni, acquedotti, discariche, inceneritori.
Ecco che allora l’opera di Nio diventa importante se non addirittura carismatica, sovversiva, dirompente perché impone il progetto come pratica architettonica e si impone sulla normalizzazione “civile” con realizzazioni impreviste, insolite, provocatorie, tutte finalizzate a ri-animare con elementi incongrui, intorni scenografici, segni unici ciò che è stato dato per scontato, sottovalutato, ignorato. In questo modo si tenta di stravolgere il labirinto pericoloso della viabilità; di rendere, sostanzialmente, fertili contesti destinati ad essere anonimi, grigi, senza anima perché nati per soddisfare esigenze prettamente funzionali. In questo gruppo di cinque progetti da noi scelti – tra l’altro tutti portatori di un nome – si trova conferma del fatto che in altri paesi europei si è riusciti a mantenere un rapporto tra committenza, società civile e cittadinanza capace di garantire, anche solo con piccoli interventi, un dialogo con le comunità che vi abitano, mentre altrove (vedi Italia) il territorio urbano viene quasi sempre considerato come terreno su cui imporre una politica sostanzialmente arida (monocultura) perché finalizzata allo sfruttamento di tutte le sue risorse (vedi oneri urbanistici, imposte, ICI,…).

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© arcomai l Amazing Whale Jaw, un manufatto architettonico “non convenzionale”.

1) Amazing Whale Jaw (Hoofddorp) è un capolinea di autobus al centro di una piazza recintata dalla viabilità. La struttura – che per le sue dimensioni (50m x 10m x 5m) è la più grande al mondo realizzata in materiale sintetico – è costituita da un blocco scultoreo, realizzato interamente in poliestere&polistirene. Sebbene vi sia un evidente omaggio/riferimento a Niemeyer, il progetto – libero in realtà dalle soggezioni della storia – si arricchisce di contenuti nuovi. Infatti – sfruttando un budget che non avrebbe mai permesso la messa in opera di un’architettura del genere usando metodi costruttivi di tipo “civile” – il manufatto esprime tutta la sua potenzialità proprio nell’essere “non convenzionale” sia nei confronti del “pensiero unico” dell’ingegneria civile – che impone i soliti cliche (materiali, tecnologie, manovalanze, tempi di costruzione, …) – che di quello con cui di solito si amministrano le politiche del territorio. Il risultato, la trasformazione di un cosiddetto “spazio tecnico” in una enorme scultura vissuta/abitata.
2) Heaven and Hell (Voorburg) è un edificio ad uso commerciale definito da Nio “in contrast with the gray and hard civil world of the viaduct, its color scheme and contours evoke the strangeness of a different world”. Ciò trova riscontro proprio nel rivestimento esterno del manufatto (circolare e a forma di grande goccia) grazie ad un mosaico fatto con piccoli elementi di vetro colorato che non solo va a riempire uno spazio insolito, che è quello sottostante ad un viadotto, ma si adopera sia come elemento “pratico” di congiunzione tra le aree divise dalla viabilità che “visivo”, contrastando il grigiore di questo luogo donando anche in questo caso un senso proprio di riconoscibilità e visibilità.

3) Moon knight (Amstelveen). In questo progetto – dedicato ad uno studente di Westwijk che ogni mattina percorre lo stesso tragitto per andare a scuola in bicicletta – l’architetto interviene in un sottopaso – che a mio avviso è la tipologia/monumento alla liberazione del pedone dalla pericolosità dell’auto – interpretandolo come una stanza: “Not as long as the tunnel belongs to the municipally alone, but people will if this is the room of a lucid mind who has decorated the civil construction to his own personal wishes (we suspect, by the way, that this is Vasarely’s room)”.

4) Flower Power (Kerntraject Zuidtangent). Anche qui l’architettura vuole stravolgere lo stato delle cose: “…we wanted to boost the image of public bus transport by reacting against this common picture of things. We wanted the steel to dance and the concrete to speak. We wanted to cross technique with flora, Schipol with Floriade, super service with super-identity. Nio ci spiega che l’efficienza di un servizio non è solo nella soddisfazione delle sue mere prerogative di efficienza, ma nell’identificazione delle persone ad questo.

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© arcomai l Da sinistra: Heaven and Hell, Moon knight, Flower Power.

e infine

5) Touch of Evil (Pijnacker). Il tocco del Male è il progetto più singolare e spiazzante. Una macchia di “vernice” rossa – come provocata accidentalmente dal ribaltamento di un camion o dall’esplosione di una cisterna in corrispondenza di due viadotti sovrapposti/trasversali – crea una condizione nuova in cui “Only in this way does the tunnel become more than just a connection between two areas: an alien, immeasurable, asymmetrical and disorienting experience. A tunnel you will never understand even if you drive through it every day of your life”. Quest’ultima dichiarazione mette, involontariamente, in evidenza la temporalità dell’atto del quotidiano passare da uno all’altro degli “spazi tecnici”, in cui è organizzata la città contemporanea, da parte del cosiddetto utente/fruitore, termine con i quale viene solitamente identificato il cittadino da chi si occupa di pianificazione. È sostanzialmente un comportamento riflesso, un’agire inconscio, un atto senza tempo quello che ci porta a percorrere, attraversare e usare sempre gli stessi luoghi e spesso anche per lunghi periodi della nostra vita. Con questo gesto architettonico l’utente diventa finalmente una persona, la quale “every day of your life”, non capirà mai che diavolo sia mai successo in quel tunnel così diverso dagli altri.

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© | www.nio.nl. The Touch of Evil.


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