Urbanicittà

Urbanicità è il concetto addensante le aspettative totali e ultime dell’uomo “urbano”, cioè civile e sociale, cioè contemporaneo e storicizzato, dopo il ventesimo secolo e le sue purghe ed olocausti. Dopo la “fine della storia”, dopo la decostruzione, dopo la rete, dopo la fine della produzione materiale, dopo le “fasi” del terziario, dopo l’immigrazione e l’emigrazione, dopo l’esplosione demografica e la contrazione, dopo la Cina, … dopo tutto quello che è stato in quanto riconosciuto, o ancora da riconoscere, certo, ma sempre con atteggiamento operativo, come dovere verso tutti e se stessi. E’ speranza di civiltà cosciente e sciente, è riconoscimento dei fallimenti e contemporaneamente assunzione di responsabilità, è appartenenza al tempo ed allo spazio/luogo tra i tempi ed i luoghi, è il rifiuto dell’avanguardia come rifiuto del “proprio” tempo e dei propri limiti e conseguente rifiuto di rendersi utili, è l’impegno contro il disimpegno. Urbanicità significa rifiuto dello psicologismo universalizzante e appropriazione di senso della “propria” vita tra gli altri. In questi termini la città non è un’invenzione storica, è nell’uomo e nelle sue costruzioni mentali, ancor prima che fisiche, e la città oggi prende senso in quanto urbanicistica, cioè non “… democratica … solidale …” tutti slogan, ma, dopo l’auto-riconoscimento di inevitabilità esistenziale e storica, in quanto cosciente di sé per il passato e per il presente e con gli occhi a inseguire un futuro. La città può essere allora vivace/vivibile, problematica/accettata, violenta/cosciente, rifiutata/sperata, …, perché è dei suoi “cittadini urbani” la coscienza problematica della città vivente e datrice di speranza (nuove stazioni e nuovi cinema – nuove metropolitane e nuovi quartieri – nuovi immigrati e nuovi lavori – nuove lotte e nuove speranze – nuovi problemi e nuove soluzioni – nuove sfide e nuovi uomini – … “nuovi e non ri-nnovati, pro-getto e non re-stauro”).

Si riconosce qui che l’essere della città è il nuovo costante come opzione operativa, e quindi politica, verso un presunto “domani migliore” (l’unica motivazione del pro-getto) che solo nell’annunciarsi e poi nel farsi genera la speranza necessaria per vivere e sopportare le delusioni e gli errori. Vale sempre che “per poter vivere assai più che di mete precise abbiamo bisogno di una visione” (Elias Canetti), ma la visione in questione non è, come molti fraintendono, la visione singola individuale e pscicologisticamente autistica, non è la mia fede o le fedi di ognuno, non è la mia missione di vita o il bisogno personale di credere o sperare in qualcosa, … è quella cosa che fa le civiltà, le tensioni e le speranze che le generano. Che ci voglia per forza una guerra per riavere le speranze del dopoguerra?, una rivoluzione per generare nuove speranze e tensioni?, e quindi la caduta all’inferno e il delirio del male umano per innescare il buono e il bello degli uomini?; non è così, nonostante le teorie imperanti. Credo sia “sufficiente” elaborare e rielaborare la guerra e il male, è il riconoscimento di cui parlavo all’inizio. Ma ciò significa riconoscere errori propri e di tutti e giorno dopo giorno ricordare l’olocausto e i gulag, …, non tutti sono disposti evidentemente, ma perché non sono pre-disposti, e penso alla scuola e ai nostri figli. Dobbiamo dare loro la coscienza della storia e speranza del futuro, al di là del nostro pessimismo e delle nostre voglie, dobbiamo volgere le nostre pre-occupazioni in stimoli, dobbiamo kantianamente dobbiamo.


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