Concetti per nuovi servizi abitativi per Bologna

PRIMI RAGIONAMENTI

Qui si scrive “di housing, volendosi intendere con ciò sia la “politica della casa” sia il “modo di fare le case”. Il nucleo metodologico del presente lavoro risiede nel concetto di progettualità possibile oggi, il nucleo critico-operativo nel nuovo sincretico termine di “servizi abitativi”, a voler marcare la cesura con il superando cumulo di termini vetero-residuali di “residenza-casa-abitazione”. Il “passo in avanti” che si prospetta ha fondamento in riflessioni di carattere socio-politico e architettonico-urbanistico-civile tutt’altro che ristrette o locali, nonché nell’aggiornamento degli orizzonti del progetto e del suo “recinto”; necessita, pertanto, di un nucleo di considerazioni meta-operative.

Si sostiene che una politica della casa di un’Amministrazione comunale deve oggi affrontare il progetto, come nuovo e imprescindibile orizzonte operativo, oltre che procedere per programmi e quantità, slogan e cooperative, lotti e comparti, standard e superfici. Nel denso groviglio di significati che il concetto pre-suppone e dipana nel farsi, risiede la possibilità ideale e reale, ovvero vitale, della ricerca. La riproposizione di modelli noti, in particolare per la Regione Emilia Romagna si tratta di un’esperienza che ha esattamente quarant’anni, non tiene più il passo; le architetture e le urbanistiche concretizzate lasciano oggi un senso di precoce invecchiamento e di deludente capacità di flessibilità, ben aldilà dell’inevitabile superamento cronologico dell’esperienza.

Noi individuiamo errori originari nei riferimenti di progetto di tipo estetico-emozionali e, appunto, nella rinuncia programmatica a legare la politica ad una rigorosa ricerca architettonica, magari dichiarando oggi superata la burla postmodernista. Questa condizione inficia in via di principio ogni risultato possibile, salvo il caso programmaticamente episodico e singolo, metodologicamente autistico ed “irresponsabile” verso il sistema generale ed i possibili risultati e la loro sistematicità. In particolare, Bologna non è nemmeno mai transitata attraverso il moderno ed il “razionale”, rifiutandone le prime esperienze, oggi icone di se stesse, adoperandosi spesso, anzi, per un malinconico scimmiottamento del mitico centro storico; mito posto ed imposto, si sa, aldilà di ogni possibile “riconoscimento” scientifico e culturale. Bologna è stata così, per anni, bloccata e costretta, ancora oggi qualcuno vorrebbe, al tipo e ad un certo tipo di casa. Bologna città parco-storico, figlia della “ghettizzazione dei cittadini nell’ambiente migliore per vivere”, colpevole della rimozione dell’altro da noi.

L’humus concettuale che innerva la proposta in ambito HOUSING a Bologna, oggi, riflettendo sulle possibili vicinanze e le doverose intersezioni tra tema politico, “POLITICA DELLA CASA”, e tema progettuale, “COME FARE LE CASE”, aggiornato ed internazionalizzato, ha il respiro vasto della ricerca e del confronto di idee, ma sarà qui immediatamente declinato in termini di “urgenza” operativa.
CONCETTO: L’HOUSING NEL DIBATTITO CONTEMPORANEO.

SONO GIÀ STATE POSTE QUESTIONI E PARZIALI SOLUZIONI, IL DIBATTITO NON È DA APRIRE, È SOLO DA IMPORTARE OPERATIVAMENTE.

In Italia, non certo solo a Bologna, è noto, il rapporto con la storia ha operato da vincolo paralizzante rispetto alle opzioni di trasformazione del territorio e, in particolare, delle città. Gli impulsi all’innovazione ed alla sperimentazione non hanno più trovato sbocco, almeno dagli anni Settanta; ciò aggravato dal contemporaneo attivismo innovativo in tutta Europa. Le iniziative di parte pubblica devono, ci pare, proprio per loro statuto, investendo le risorse della città, prevedere innovazione e sperimentazione come requisiti fondanti degli interventi che promuovono, a maggior ragione di fronte ad emergenze, pena la loro cronicizzazione e lo spreco dell’occasione. Se all’investitore privato, poi, ciò non può essere imposto, la politica urbana pubblica e lo “spirito” da essa promosso, possono dare fiducia e condizioni di successo. “Le condizioni dell’abitare contemporaneo inducono una riflessione sul ruolo della dimensione pubblica nell’attuale congiuntura politico-economica, ancora contraddistinta dalla transizione nel climaterio industriale. Se la pervasiva dispersione dell’urbano attraverso un territorio senza confini apparenti comporta un consumo di suolo in evidente conflittualità con il persistente richiamo alla sostenibilità ambientale dei processi di antropizzazione, la responsabilità collettiva pare sempre più esaurirsi nella identificazione delle strategie infrastrutturali strumentali al dispiegamento delle energie creative individuali. […] Le politiche della casa diventano emblematica espressione delle conflittualità latenti nei processi in atto. …” (Nicola Marzot su Paesaggio Urbano n. 6/2004).

L’abitare collettivo ad alta densità, perché di questo si deve parlare in ambito urbano, oggi si confronta sia con nuove necessità che costituiscono le nuove richieste (input al progetto), sia con nuove opzioni “creative” (offerte progettuali, output), non necessariamente conseguenti e corrispondenti. Il tutto allarga in ogni caso il campo delle possibilità, laddove le novità sociale, per es., dell’esplosione dei piccoli nuclei familiari, può trovare spazi adeguati in più tipi e forme di spazi abitativi non tradizionali e, nel contempo, generare ulteriori diverse interpretazioni della domanda. Piuttosto che progettare case per anziani o case per giovani, si può pensare a case flessibili ed evolutive come gli abitanti; si è già visto l’errore per cui quando c’è stata la domanda di asili questi non c’erano e non c’erano strutture adattabili, poi se ne sono costruiti tanti quando oramai la domanda scemava e si è scoperto che essi stessi non erano altrimenti adattabili, e via di seguito per modelli rigidi. In definitiva, piuttosto che rincorrere l’ennesima schematizzazione di nuovi bisogni, per natura evolutivi, cui corrispondere con nuovi determinati modelli abitativi, nuovamente rigidi, pare proficuo sfruttare appieno le infinite opzioni progettuali possibili, che proprio per essere tali e processualmente aggiornate, necessitano di “libertà normativa”: libere proposte con libere norme tramite occasioni concorsuali aperte. Non è questa la sede di espressione di concept innovativi sull’abitare collettivo, tuttavia, si possono enucleare temi forti all’ordine del giorno.

Una prima serie di temi individuabili riguarda il RAPPORTO TRA SPAZIO DOMESTICO E SPAZIO PUBBLICO, ricercando proprio in quegli spazi di transizione cha vanno dallo spazio condominiale a quello di quartiere, da quello semiprivato di ballatoi e atri a quello condominiale a tema di coperti piani o di sale comuni, da quello dell’ingresso e del lavoro, potenzialmente “aperto” a quello iperdomestico dell’abitare, …, un ricco pacchetto di stimoli progettuali. Occorre tornare a ragionare sulla mancanza di spazio, sia per preservare gli ambiti agricoli extraurbani, sia per reinterpretare la città in termini di densità e complessità, due estremi evidentemente bisognosi di reciprocità; e per questa via dare spazio a possibili opzioni non pre-determinate e, pertanto, non bloccate da vincoli normativi.

Vista in questi termini, la distinzione rigida tra parcheggi pubblici e privati, tra verde pubblico e privato, tra superfici accessorie pertinenziali e comuni, si capisce, impedisce l’evoluzione progettata dei loro rapporti e delle loro proficue relazioni ed integrazioni; ciò a maggior ragione secondo prospettive evolutive, diacroniche e diatopiche. Anzi, proprio nella rigida individuazione di “superfici utili ed accessorie”, nella voluta contrapposizione tra standard e dotazioni private, s’individua un nucleo forte di norme da sottoporre a “critica progettuale”, peraltro da approfondire proficuamente rispetto agli aspetti di commercializzazione degli immobili, legati a criteri e prassi assolutamente ed incredibilmente datati. Solo l’azzeramento virtuale delle convenzioni acquisite o imposte può generare innovazione. Facciamo rientrare in questo corpo una concettualizzazione possibile ed operativa su economia ed ecologia: utilizzare più livelli fisici disponibili (sopra e sotto, uno sull’altro, possono stare il verde e le strade, l’abitazione ed i parcheggi, il lavoro e lo sport, gli standard e gli spazi privati, i servizi e gli usi principali), può essere in grado di liberare enormi risparmi di territorio, anche riconnettendo architettura e land art. Le tecniche che offrono diverse possibili soluzioni di copertura e di uso degli interrati, la contiguità di spazi rumorosi e spazi calmi, l’integrazione di verde e costruito, …, non sono nemmeno più innovative, ma di certo non pienamente sfruttate, se non all’estero con dovizia di esempi felici. Ancora, si può ragionare sulla cronourbanistica: come si possono sovrapporre superfici e spazi, così si possono sovrapporre gli utenti, in tempi diversi gli utilizzatori dei servizi possono moltiplicarsi, trattasi solo di stabilire i turni; rientra in qualche modo in questa tematica l’uso del servizio abitativo indipendente dalla proprietà, vedi per es. l’uso temporaneo di spazi abitativi durante il periodo degli studi e le relative stagioni (non necessariamente limitabile operativamente a studentati e a camere-carnai o a monolocali da investimento).

Lo stesso RAPPORTO TRA SPAZI INTERNI ALL’UNITÀ, se liberato dalla presa normativa ed immobiliare, vedi iniziativa pubblica o meno ma comunque orientata non alla vendita immediata o, perlomeno, non strettamente sostenuta dalla necessità di ritorno immediato sul mercato immobiliare generico (lotti oggi edificabili in regime libero ad uso residenziale), può rivelarsi più ricco di possibilità, ancora una volta anche diacroniche e personalizzate (vedi flessibilità), di quanto generalmente non si ritenga, proprio perché non è data la possibilità della prova e della ricerca. Il senso delle sistemazioni e distribuzioni interne, numero e forma di camere e bagni, criteri d’illuminamento e ventilazione, dimensioni e criteri d’uso, in ambito abitativo, non può non risentire delle nuove e diverse necessità come delle nuove e diverse possibilità, anche strutturali ed impiantistiche, pena la perdita di corrispondenza ai bisogni, ma, soprattutto ai desideri ed alla processualità. Non varrebbe forse la pena di occuparsi del volume e dell’impianto urbano, dei servizi e dell’accessibilità, della forma e delle qualità, e lasciare poi la casa “aperta” alle soluzioni individuali, metro più metro meno, dentro un volume dato? E ciò anche nel tempo e molto concretamente, con riferimento a ciò che può essere mobile e ciò che è opportuno sia fisso, ciò che può essere “cieco” e ciò che è opportuno sia finestrato (per es. perde senso la distinzione tra bagno di monolocale, di appartamento e di ufficio). Sappiamo bene che la “verifica normativa”, che è espressione di regole fondate su patti di convivenza, non è tema secondario, né la sua “critica” è immediatamente percebile nelle valenze, ed infatti entra nel discorso “ricerca-concorso”; vale a dire non di deroghe si deve correttamente parlare, bensì di ricerca progettuale libera non pre-conformata al regolamento edlizio.

Il tema del RAPPORTO TRA DIVERSI USI POSSIBILI, sempre in un’accezione sia diacronica sia diatopica sia conflittuale-complessa, porta a sublimazione i precedenti due temi. Sperimentare sull’abitare comporta la ricerca su spazi come su usi dei medesimi: stessi spazi per diversi usi e stessi usi per diversi spazi, nelle loro infinite combinazioni, solo di volta in volta adottate, possono darsi come offerta (di opzioni), anziché come tipi-usi dati. Dunque sperimentare sull’abitare in realtà ci porta a sperimentare sul lavorare e sul divertirsi, sullo studiare e sul fare sport, e via di seguito. Il servizio abitativo è la condizione transitoria richiesta ad uno spazio di vita anche altrimenti utile. Non è poi difficile immaginare edifici che non siano necessariamente solo per abitare o per lavorare, per non dire poi di quanti “discorsi” si porta dietro il cosiddetto “cambio d’uso”, nelle sue tante variabili, immagine normativa giustificabile solo in carenza di aperture alla realtà che preme. Anche qui, al di là degli opportunismi del mercato, innegabili, vale la sperimentabilità possibile di alternative laddove ben inquadrate in una politica di ricerca, parallela e necessariamente distinta dal normale andamento del mercato immobiliare e dei suoi controlli istituzionali, salvo le ricadute enormemente positive che sono attese, anche solo in termini di consapevolezza.

Ma mettere a sistema i tre punti sin qui affrontati significa di più, significa dare possibilità di usi diversi privati ma anche pubblici, di insediare diacronicamente o sincronicamente attività del tutto autonome e distanti, ma tecnologicamente perfettamente compatibili (tutta la gamma del risiedere fisso o temporaneo, tutta la gamma del lavorare singolo o in team dal laboratorio all’ufficio allo studio, tutta la gamma dei servizi all’abitare ed al lavorare dalla lavanderia alle sale conferenze, tutta la gamma delle attività fisiche e ludiche dalle palestre ai teatri alle gallerie espositive – grandi atri e spazi comuni, diverse opzioni di comunicazioni orizzontali e verticali, blocchi fissi e spazi aperti, pareti mobili ed impiantistica flessibile, …). Va inoltre valutata la possibilità di “temporaneità”, vera, degli stessi edifici o delle loro forme, insieme alle funzioni. Si tenga conto, inoltre, che cotanta sperimentazione, lungi dall’essere miticizzata o avanguardisticamente evocata, cioè irrealistica, ha già trovato e trova da anni luoghi mezzi e tempi in paesi talmente vicini, non solo geograficamente, tutta l’europa, che proprio non si danno appigli di irrealizzabilità al di là delle volontà.

Il rapporto di tutto questo con i temi di BIOEDILIZIA-BIOARCHITETTURA-BIOURBANISTICA, determinante nel fondare le condizioni di sostenibilità aggiornata e credibile oggi, ci piace rimandarlo al progetto; strumento e sede dell’operatività possibile. In estrema sintesi i campi d’indagine che si legano e che vanno, dunque, messi a sistema nella “prova”, riguardano non solo e non tanto le discussioni sui materiali della bioedilizia, quanto l’integrazione struttura-impiantistica-fonti energetiche-carico termico-…; il rapporto tra involucro e interno e tra involucro e terreno e tra involucro e cielo attraverso il coperto; bioclimatica e nuovi sistemi per il riscaldamento/raffrescamento e produzione acqua calda; sistema costruttivo umido e sistema a secco; rifiuti/riusi. Parafrasando Lisa Di Bartolomeo nella sua presentazione di un “ennesimo” quartiere eco-sostenibile a Stoccolma, si può già pre-costruire un pacchetto di richieste al progetto: “La progettazione e realizzazione delle costruzioni, dei sistemi tecnologici e del traffico, devono garantire specifici standard ambientali ed il fondamentale requisito di riciclo delle risorse consumate e prodotte all’interno dell’insediamento stesso. … coniuga l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti alla dimostrazione di come vari sistemi tecnologici, volti all’efficienza ed al risparmio energetico, siano stati integrati in un unico progetto. Energia elettrica, calore e biogas prodotti da fonti rinnovabili, da impianti di cogenerazione e dal riuso di rifiuti umidi, tecnologie per il trattamento delle acque […] prevedono il risparmio e la loro destinazione per altri usi compatibili. Sistemi domotici di controllo dei consumi e del funzionamento energetico, della sicurezza e del comfort, garantiscono l’efficienza negli edifici”. Ma questo, ripetiamo, è solo uno degli strumenti operativi di verifica del progetto di nuovi “servizi abitativi”.

CONCETTO: L’HOUSING NEL PROGETTO, OVVERO, IL PROGETTO NELL’HOUSING
SI VUOLE PASSARE ATTRAVERSO IL PROGETTO E PERCIÒ ANCH’ESSO VA SOTTOPOSTO A CRITICA OPERATIVA E VANNO INDIVIDUATE LE CONDIZIONI CULTURALI DEL SUO ESPLICARSI, PENA I SOLITI RISULTATI IMMAGINIFICI MA INUTILI ALLA PROCESSUALITÀ.

“Non bisogna mai esaurire un argomento al punto che al lettore non resti niente da fare. Non si tratta di far leggere, ma di far pensare.” (C.-L. de Montesquieu) ovvero, offrire occasioni di abitabilità nuove e diverse, non prefigurando soluzioni ma offrendo ipotesi.
Si propone di privilegiare:

  • la ricerca di nuove o migliori spazialità
  • la “pretesa” di fare sempre meglio, rispetto alla ripetizione del modello commerciale, neanche più “tipologico”, quanto piuttosto “immobiliare”
  • l’apertura di nuovi argomenti e temi piuttosto che pretendere di chiuderli … giudichiamo perciò il progetto per il rapporto densamente esistenziale e problematico, antropologico, che deve crearsi tra uomini abitanti, architetture e oggetti, non con la presunzione disciplinare, … a partire dal “tutto solidale” e non dagli elementi in sommatoria per individuare le risposte che racchiude – pensiero libero-critico-sincretico – intuizione globale

Si sostiene che:

  • poi dovremo sempre tornare agli uomini, se non altro perché questo è un impegno preciso che assume il progettista con l’assunzione della “delega al progetto”.
  • se all’Amministrazione ed ai Costruttori è richiesto di “dare case”, al progetto è richiesto di più, di riflettere su “la casa” ed offrire la qualità della ricerca, la speranza dell’innovazione. Perché c’è speranza nella progettazione, c’è il progetto contemporaneo, ci sono le architetture usate e vissute, ci sono progetti ed architetture problematiche ma vive, ci sono complessità e confusione ma rigore e programmi, ci sono risposte parziali, ma cercate e non “subite”.

Le architetture possono essere eventi, cioè possono esaurirsi in se stesse, ma possono anche essere parte di un evento più grande e civile; anzi, volenti o nolenti, in ambito housing, DEVONO essere di più, perché sono parte del sistema di vita. Si devono cercare tenacemente risposte ad esigenze degli altri e nostre, sapendo che i risultati dall’esito problematico sono sempre transitori. Ma è proprio questo lo sforzo che si vuole chiedere al progetto, perché gli spazi di vita (architetture) per essere significative all’uomo devono sempre essere “pensate”. Esse non si determinano con la pratica manualistica, con la semplificazione e la moderazione: formalismo estetico e sviluppo delle regole disciplinari s’incontrano naturalmente sul piano dell’assenza di significati per gli uomini.

“… Tutti siamo affetti da quel grande pregiudizio che fa della psichizzazione e della interiorizzazione dell’uomo una ovvietà universale, cui corrisponde, in perfetto parallelismo, il pregiudizio dell’esistenza obiettiva e in sé assoluta delle cose…” (Carlo Sini). “Distinguendo tra un’attività procedurale che si accontenta di produrre “onesta edilizia” e un’attività culturale capace di rimettere in questione il senso della propria esperienza e la prassi consolidata del ‘si fa’ perché ‘si deve’. …. (Paolo Desideri).


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