La città da riempire

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Da sinistra. La Kunsthaus di Cook a Graz (2002) e A walking city di Archigram. Il Monumento continuo: “Saluti dall’Empire State Building” elaborato da Superstudio e il Boscotondo ad Helmond di Natalini.

Si è tenuto l’altro ieri al Quartiere Fieristico presso la Sala Italia del PalaCongressi il convegno internazionale, organizzato da BolognaFiere nell’ambito del SAIE 2004 dall’accattivante titolo: “Abitare il futuro, Innovazione e nuove centralità urbane”. Arcomai è andato alla sola sezione del mattino che ha avuto come ospiti illustri due dei protagonisti dell’architettura radicale in Europa: Peter Cook e Adolfo Natalini, testimoni viventi della stagione finale di quel ‘diorama visionario’ che dal Futurismo agli anni ’80 ha espresso il tentativo di superare i limiti della storia, di cui oggi ne è rimasto purtroppo solo un ‘almanacco’ di belle immagini usate per riempire sale e pubblicazioni.

Tema del convegno è stato quello dei ‘contenitori urbani’, temine a mio avviso inquietante per definire le architetture che avrebbero il compito di generare oggi la ‘innovazione’ all’interno della città contemporanea, ma che si attivano solo come grandi involucri o ‘luoghi di concentramento’ in cui far convergere ‘il tutto’ così da poter svuotare più facilmente il resto. Così si legge nella sintesi che completa l’invito: “Luoghi urbani come aeroporti, terminal ferroviari, centri commerciali, musei, mediateche, discoteche, show room grandi griffe, sono ormai diventati luoghi privilegiati in cui il futuro prende forma, proponendo funzioni inedite ma anche sperimentando tecnologie e materiali innovativi e determinando cosi nuovi poli attrattivi della vita urbana. In un contesto internazionale globalizzato, caratterizzato da una sperimentazione formale e tecnologica a tutto campo, l’evoluzione del settore delle costruzioni è oggi in grado di concretizzare idee sempre più innovative, fino a pochi anni fa relegate nel campo delI’utopia.

Sarà proprio il passato delle avanguardie anni ’60 a legittimare questa iniziativa, infatti si legge ancora: “…oltre alle esperienze di alcuni protagonisti della nuova architettura contemporanea, (si) propone anche una riflessione sull’evoluzione dei protagonisti dell’architettura radicale che, dopo aver immaginato un mondo nuovo e utopico, oggi sono concretamente impegnati a realizzarlo”. Chi ha organizzato questo convegno evidentemente non solo ignora la storia dell’architettura ma non conosce l’uomo come artefice della storia stessa. Come si fa a pensare che una ‘idea’ – pensata quasi quarant’anni prima in contesti, tra l’altro, molto diversi dal presente – possa essere messa in pratica oggi mantenendo integri i contenuti originari; come si può voler far credere che la Kunsthaus a Graz [Cook, 2002] sia la sintesi di A walking city [Archigram, 1972]; che il Monumento continuo per New York [Superstudio, 1969] riviva oggi nel Boscotondo ad Helmond [Natalini, 2000]. Questa operazione ci dimostra come l’industria travestita da tecnologia abbia bisogno della storia per legittimare sé stessa, come l’edilizia abbia bisogno del passato per accreditarsi come architettura.

In questa ‘piazza d’armi mediatiche’ in cui annaspa oggi la ‘cultura del pensiero’, Cook e Natalini hanno interpretato magistralmente dall’alto del palcoscenico fieristico il ruolo di due soldati (dalla marzialità oramai sbiadita) che sanno bene che la guerra è finita da tempo ma sembrano non voler deludere/spaventare coloro i quali non hanno ancora capito che bisognerebbe farne una nuova e magari più cruenta. La grande gaffe preannunciata nell’invito è stata confermata dagli interventi degli stessi ospiti, prima ancora della presentazione delle loro realizzazioni. Ma andiamo per ordine.

Cook (micofronato-cordless) – abbandonandosi per almeno un’ora in un’esilarante performance da concerto del 1° maggio – dopo aver esordito con un coraggioso inno al ‘brutto’ (qui sottoforma di categoria estetica) si è alternamente rilassato raccontando in simultanea (su due schermi) sia la vicenda di Achigram che la realizzazione della mediateca di Graz. È proprio nella presentazione di questa architettura contemporanea che accade qualcosa di inaspettato: confessando con ironia come tale opera sia stata considerata un high tech building – quando invece a detta di lui non lo è poiché “il budget non l’ha permesso” – svela involontariamente le motivazione con cui oggi viene riconosciuta un’architettura all’interno di una classificazione stilistica: non più i di-segni dei grandi maestri, i legami con le altre arti, le scuole di pensiero, ma il costo della tecnologia impiegata per realizzarlo. A mio avviso la Kunsthaus non solo non è la ritardata realizzazione di un pensiero utopico ma, addirittura, rappresenta “il (primo) evidente falso storico della storia dell’architetture del terzo millennio.”

Ma è con Natalini che tali supposizioni diventano certezze. Infatti, in apertura del suo intervento, riferendosi al suo passato ‘sovversivo’ – ricorda con orgoglio l’86 come la data in cui vennero celebrati sia i 20 anni di Superstudio che il suo automatico scioglimento. Tutto il discorso da lui pronunciato è parte di un lungo pensiero quasi tutto letto (riga dopo riga) su appunti ben ordinati – sicuramente già datati – non tanto per comodità o per replicare un convegno già fatto, quanto per ribadire ciò che l’esperienza professionale, indipendentemente dalle avventure precedenti, ha contribuito a consolidare in una vita di lavoro. Infatti così sentenzia: “..le innovazioni importanti sono poche perché le altre non servono” […] “l’architettura coltiva i suoli”, è per questo che: “…l’architettura ha più a che fare con l’agricoltura che con l’industria”. Questi ultimi concetti distruggono completamente, a mio avviso, le intenzioni di chi ha organizzato l’evento: l’innovazione non è inventarsi il brevetto lucido di un componente costruttivo; ciò che è importante delle avanguardie non è tanto se queste prima o poi realizzano sé stesse, ma le motivazioni, i messaggi, i contesti (storici) che sono precedenti alle loro rappresentazioni.

La presenza di Cook e Natalini sono il testamento di un’epoca che non c’è più, che è finita da tempo perché era nata dalle trasformazioni sociali degli anni ’60 e dalle trasgressioni nei confronti della staticità di una disciplina imprigionata nell’eredità del Movimento Moderno, attraverso le quali gli architetti di allora ricercavano linguaggi e strategie per il proprio tempo. “La volontà era quella di andare oltre l’architettura, di affinare cioè nuovi linguaggi e energie per progetti destinati ad una ‘città invisibile’, ad una città senza architettura così come tradizionalmente essa era intesa, ma concepita per il futuro in base alle sensibilità e intuizioni del presente” [Gianni Pettena in www.giannipettena.it/radical/intro/centro.htm]. Le avanguardie sono morte, lasciamole in pace. Oggi la questione è un’altra: esiste ancora la sperimentazione? C’è veramente voglia di innovazione, non solo tecnologica ma culturale? È proprio sulla condizione della cultura architettonica contemporanea che ci si dovrebbe soffermare – così emarginata, perché inadeguata di fronte ai nuovi contesti; così periferica rispetto alle scelte importanti, perché incapace di incidere sul sistema complesso tra politica ed economia – come si può pensare di realizzare il futuro se si è incapaci di capire che cosa accade intorno a noi?

Costruire oggi utopie potrebbe vuol dire avere il coraggio di formulare un approccio mentale che le esclude; finalizzare gli sforzi per realizzare, in tempi brevi, ciò che c’è bisogno mediante azioni che portino al superamento delle contraddizioni del presente e non semplicemente contenere i danni, adattarsi, appiattirsi sull’esistente rassicurante. Ci sono cose appassionanti da fare nel mondo, c’è tutto un pianeta di cui farsi carico, c’è tutto un mondo da (ri)progettare. perché chiamare settantenni per farci dire che cosa dobbiamo fare senza spiegarci perché loro non ci sono riusciti? Oggi si vive già una condizione utopica, visionaria, irreale, surreale (“va tutto bene”): da una parte l’uniformazione, dall’altra l’ineguaglianza. E allora, perché andare a scavare nelle ‘fantasticherie’ del passato e voler farci credere che queste dopo 40 anni si possono realizzare? Gli imperativi del presente non ci permettono di attendere così tanto tempo. Riportiamo il senso di ciò che facciamo alla realtà delle cose, pensiamo altrove, formuliamo l’imprevisto (perché non pre-visto dal sistema imperante), concentriamoci sull’emergenze dell’ambiente nel suo complesso, sulla messa a punto di nuovi strumenti di indagine, sull’attivazione di ipotesi progettuali indipendenti dalle regole che gestiscono il tutto.

Ciò che viene qui criticato non è tanto il fatto che possa far comodo ad alcuni tenere in vita quello che rimane delle avanguardie (in questo caso radicali) per riempire il vuoto di una cultura architettonica che oggi si manifesta incapace di formularne di nuove, o che sia l’industria ad appropriarsene per manipolare l’immaginario collettivo così da rendere più facili operazioni di tipo solitamente speculativo, quanto il fatto che ne vengano censurate le cause che le hanno determinate, i contesti in cui si sono formate. Il ‘pensare architettura’ al di fuori della disciplina è sempre il sintomo di qualcosa che non va, l’espressione di un malessere culturale che ha radici profonde. Le nuove idee, le nuove tendenze, le nuove visioni del futuro – sempre che esistano e siano in ‘buona fede’ – sono esemplificate da convinzioni e da realizzazioni individuali e non più da movimenti, da indirizzi collettivi dedotti da un programma guida, da un dogma, da una verità comune. Allo stato, tali ‘idee’ non solo non portano a nulla, ma si pongono in una condizione di vulnerabilità nei confronti delle pressioni economiche che in modo subliminale subiamo mediante il sistema mass-mediato che è al suo servizio.

Io credo che nelle vicende dell’umanità si affacci periodicamente il bisogno inconfessato di voler vivere una visione collettiva, un grande sogno metropolitano – magari disegnato ‘a mano’ da nuovi ‘messia’. Sono convinto che, anche in questa stagione, ci sia la voglia di tornare a identificasi in qualcosa di grande, di monumentale, di imprevisto, di diverso, di connettivo; qualcosa che vada al di là del domestico; qualcosa in cui ritrovarsi per (con)dividere insieme uno stato plurale; qualcosa mediante il quale depurarsi dalle tossine del consumo, demolire tutte quelle superfetazioni che ci servono per proteggerci (noi blindati nella privacy-security) dalle insicurezze del nostro tempo; qualcosa che metta ordine, che si imponga come ‘regola’. È da queste condizioni che si avverte la necessità di una visione finalmente unica in cui la ‘città’ sia l’espressione forte, unitaria e autoritaria di un’epoca; la risposta comune in grado di ridare ordine ad un paesaggio (soprattutto quello urbano) oggi frammentato proprio dalle acrobazie tecnologiche dello star system – imposto dalle logiche di mercato – che punta più ad impressionare con effetti speciali che a dare risposte concrete alle questioni della contemporaneità. La politica non ha più il potere di attivare processi di traformazione, il mercato certo non la sostituirà, l’architettura, se riesce ad liberarsi da ciò che la opprime, forse sì.

Tornando al tema del convegno, viene facile associare gli ‘involucri urbani’ ai tanto famigerati ‘nonluoghi’ – dis-seminati concettualmente con successo in tutti i luoghi del mondo dall’antropologo francese Marc Augè, per il quale la globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del transito che ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le stazioni, i parcheggi, gli shopping centers, le catene alberghiere, ecc… ‘non sono luoghi’ nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare, radicamento, appartenenza, relazioni simboliche, identità individuali ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo senza confini. Ma in questa ‘leggenda metropolitana’ Augè non prende in considerazione il fatto che sebbene gli spazi occupati dal trasporto, dal commercio, dalla cultura, dal tempo libero, dai servizi siano progettati e rappresentati quasi sempre seguendo un clichè standard, prima o poi (anche se di transito) sono destinati a possedere un’anima; a divenire anch’essi luoghi della memoria, in cui apprendere ciò che noi non siamo più; a creare appartenenza e autoidentificazione, a divenire patrimoni condivisi.

La città contemporanea, come è noto, vive una condizione cosiddetta ‘diffusa’, omologata, spalmata su di un determinato territorio, e con essa la società che vi abita. Ciò determina sia la frammentazione del ‘continuo urbano’ in diverse comunità, settori, aree, distretti – che possono o no avere cose in comune – ma anche la inevitabile convergenza verso ciò che io definisco ‘luoghi di concentramento’ mentre altri chiamano ‘contenitori urbani’. Allora, se è vero che il mondo, così concepito, in realtà dipende dai consumatori, vedo proprio in questi ‘involucri’ le potenziali sedi della ritrovata ‘coscienza’, della futura presa del potere; riconosco in loro l’essere la potenziale ‘polveriera sociale’ del ‘disappunto’ da cui forse, un giorno, potrà nascere qualcosa di insolito, di grave, di destabilizzante.

poiché oggi l’innovazione in architettura si attua attraverso la ricerca estetica veicolata dalla tecnologia, penso che l’elemento tecnologico e quello economico – che vi è collegato perché l’industria è sempre più tecnologica – dominino la società civile nel suo complesso. Tale situazione condiziona profondamente e soprattutto il mondo politico, perché obbliga chi governa a tener conto di questo aspetto e talvolta a inchinarsi davanti alle sue esigenze. Allora viene da chiederci: “Che ruolo ha oggi l’architetto in questo mondo della ridondanza, del troppo-pieno, dell’evidenza (pubblicità), dell’autocelebrazione”? E ancora: “Sarà in grado l’architetto di rispondere agli imperativi della contemporaneità?”; “Sarà in grado di creare prospettive serie per il futuro prossimo venturo?; “Potrà ancora far sognare, dare speranze e concretezza?; “Tornerà ed essere protagonista?” Queste domande sono ben sintetizzate nei contemporanei interventi di Fulvio Irace che, commentando la chermes mondiale alla 9° Biennale di Venezia, così denuncia: “Quasi tutti i progetti si riferiscono a temi simbolici, monumentali, lussuosi, senza il minimo cenno ai problemi sociali dell’ambiente che ci circonda e dei paesi periferici che non possono permettersi nè la simbologia nè il monumento, nè il lusso, perché è proprio con la loro miseria che stanno pagando questi stessi attributi delle nostre minoranze privilegiate. È piuttosto significativo che non si faccia riferimento alle abitazioni di emergenza, nè semplicemente, a quelle collettive”. (Il Giornale dell’Architettura, ottobre 2004). E ancora: “…Accentuando anzi Ia selezione delle opere a dimostrazione delle tesi del curatore, ha confermato il sospetto che il rutilante universo delle trasformazioni sia solo l’accattivante riflesso degli autentici ‘poteri forti’ del neocapitalismo: un’architettura che con Ia sua fastosa opulenza segna I’autentico discrimine tra le vane soglie di ‘povertà’, esprime l’orgoglioso know-how delle culture egemoni e tecnologicamente escludendo dal suo raggio d’azione ogni lembo di marginalità e ogni critica deII’errore” (Abitare nr. 443/04).

Se invece di scavare superficialmente nel passato delle avanguardie, concentrassimo le nostre energie nel tentare di capire le dinamiche in atto oggi, forse potremmo trovare dentro di noi un ‘messaggio’ che è lì in attesa di di-venire ‘manifesto’ per una nuova ‘urbanità’ più che soddisfare – con le ‘centralità’ – le mere esigenze dell’effimero. Se un giorno usciranno allo scoperto nuovi ‘pensieri liberi’, questi, più che la visionarietà di un mondo futuribile, saranno probabilmente la risposta ad una presa di coscienza drammatica, distopica, cinica, e, probabilmente, anche violenta nei confronti del mondo. Ciò vorrà dire che una certa architettura sarà destinata a divenire autoritaria e si adopererà come strumento di denuncia, di modificazione, di superamento.


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