Sunyata – la poetica della vacuità del vuoto

© arcomai I Ary Indrajanto, intervistato, introduce la mostra “Sunyata: The Poetics of Emptiness”.

Alla sua seconda partecipazione (dopo quella del 2014) l”Indonesia si presenta alla Biennale con un padiglione molto interessante – se non addirittura sovversivo – a partire dal titolo: “Sunyata: The Poetics of Emptiness”. L’installazione, curata da Ary Indrajanto insieme a David Hutama, Adwitya Dimas Satria, Ardy Hartono, Jonathan Aditya Gahari, Johanes Adika Gahari (tutti provenienti da backgrounds diversi), pone in sostanza la domanda se l’architettura possa esistere senza forma. Da cui “sunyata” – che in indonesiano significa “vuoto” – da intendersi (in questo contesto) come mezzo attraverso il quale liberare l’architettura dalla sua retorica formale in modo da rispondere alle aspettative del postulato – sintetizzato nel motto FRESSPACE – dello studio irlandese Grafton Architects (diretto da Yvonne Farrell e Shelley Mc Namara), che cura questa edizione della Mostra di Venezia.

© arcomai I “Sunyata: The Poetics of Emptiness”.

La semplicità dell’installazione incontra il significato del tema. Solo due grossi lenzuoli, costituiti da fogli di carta cuciti a mano, a coprire un’area di 21m per 18m. Due teli bianchi sospesi e squarciati da lunghi tagli dei quali il più grande posto lungo l’asse espositivo delle Corderie dell’Arenale, a creare un percorso obbligato per i visitatori provenienti dai padiglioni confinanti. Come una vela gonfiata dal peso dell’aria, i lenzuoli sembrano sorreggere il carico del vuoto che a sua volta da’ loro forma. Dentro quel vuoto il visitatore può sostare e guardare l’astrazione di ciò che non c’è.

© arcomai I “Sunyata: The Poetics of Emptiness”.

Si ha l’impressione che i curatori abbiano voluto legare il concetto di vacuità (la condizione di essere vuoto) alla frammentazione geografica del grande paese-arcipelago formato da oltre 17.500 isole. L’elaborazione di questo concetto si disperde in varie etnie, lingue, riti, costumi, paesaggi e quindi architetture, qui selezione e imprigionate dentro cubi oculari dove possiamo ritrovare l’antica rovina di Taman Sari a Yogyakarta, l’edificio coloniale di Stasiun Beos di Giacarta o il più contemporaneo Museo Tsunami a Banda Aceh. Enjoy the silence è l’invito sulle lunghe sedute al lato della sala dove riposarsi ed osservare i visitatori mentre la attraversano. Un sottofondo sonoro con i rumori della vita quotidiana in Indonesia fa da supporto emozionale.

© arcomai I “Sunyata: The Poetics of Emptiness”.

Come una candida placenta, un’istante prima di squarciarsi per dare la vita all’umanità, la vela simboleggia la prima casa dell’uomo. Dopo di che’ ora sta a lui costruirsene una sulla terra. Cosi’ il vuoto è inteso come un’entità attiva, come concepimento, iniziazione; una singolarità che funziona come medium attraverso il quale l’essere umano prende coscienza dello spazio per poi conquistarlo attraverso l’atto del fabbricare. La geometria (progetto) è lo strumento primitivo con il quale l’individuo interviene sul vuoto, un’azione ordinatrice e necessaria per proteggersi dalla natura e a volte dagli altri suoi simili. È il dispositivo per dividere prima di assemblare, per pensare allo spazio vitale prima di abitarlo. “Sunyata”, attraverso la ricostruzione metaforica della “dimensione vuota”, celebra il dialogo tra l’uomo e lo spazio (vuotezza) ma anche tra i luoghi “umanizzati” e il tempo; ponendosi in un certo senso in una posizione di neutralità che aspirare a qualcosa ancora immateriale e più grande – la spiritualità. Quindi spiritualità. E qui arriviamo ad una lettura più critica di questo padiglione, che io identifico come la “unicità” di questa edizione della Biennale per non dire uno “incidente” (sicuramente non voluto sia per i curatori che per l’organizzazione) che potrebbe mettere in discussione i fondamenti generali della Mostra d’Architettura stessa.

© arcomai I “Sunyata: The Poetics of Emptiness”.

Per la cultura occidentale la vacuità è normalmente associata al non-senso, all’inutilità, al nichilismo se non addirittura alla mancanza di contenuti logici e valori morali. Quindi una condizione negativa perché il vuoto è invisibile (non ha forma), e’ destabilizzante e quindi fa paura. Eppure la vacuità è elemento centrale della cultura buddista ed in particola della “Dottrina di Nagarjuna” (elaborata attorno al 200 d.C.) e per l’appunto nota col termine Sunyavada (da sunya o sunyata =vuoto) o “Dottrina del vuoto assoluto” – cioè la “via di mezzo“ che dimostra la vanità delle cose di questo mondo conosciuta come “relativismo assoluto”. Quindi la vacuità, grazie alla vuotezza, libera lo spazio per poi permettergli di riempirsi; ma indica anche l’inconoscibile condizione del “prima” dell’esistenza, cioè dello “stato di vuoto”, il quale nella sua realtà, rimane sempre simile a se stesso, anche quando, e se, verrà riempito da cose fisiche. La mancanza di consistenza ci aiuta a comprendere che, essendo tutti i fenomeni interdipendenti, l’Io non può essere indipendente da tutto, come appare in una prospettiva egocentrica, centrale e fisica, ma è il prodotto di tante altre cose – esso esiste in una rete di relazioni in continuo cambiamento. Possiamo quindi concludere che la forma (architettura) risulta essere una condizione pertanto immateriale per quanto appaia solida?

© arcomai I “Sunyata: The Poetics of Emptiness


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