Il ‘monumento” per ridare senso istituzionale all’architettura in rovina

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© arcomai l Il Padiglione progettato da Alvaro Siza ai Giardini delle Vergini.

Per comprendere il senso di questa la 13. Mostra Internazionale di Architettura curata da David Chipperfield – che ha per titolo “Common ground” (da noi inteso come “Terreno comune”) – bisogna partire dalla fine e non dall’inizio del percorso espositivo dell’Arsenale. Bisogna dirigersi direttamente ai Giardino delle Vergini e poi da li entrare alle Corderie percorrendole fino al suo ingresso, senza curarsi di ciò che li e’ esposto a parte i tre progetti di cui ci accingiamo a parlare in questo contributo.

Il Giardino delle Vergini, per la sua collocazione tra la monumentalità severa delle Gaggiandre e i rovi colorati di una Venezia agreste e lagunare, e’ uno dei tanti luoghi magici della città. In questo giardino sorge una piccolo edificio (padiglione) di Alvaro Siza, il maestro portoghese premiato con il Leone d’oro alla carriera a questa edizione della Biennale. E’ una costruzione “minore” (per dimensione e tipologia) rispetto alle opere che lo hanno reso famoso. E’ una combinazione di muri tinti di rosso che si snoda tra i cespugli e gli alberi secolari in questa area verde di grande fascino. E’ una “casa senza tetto”, un edificio “incompleto”, una sequenza di stanze (all’aperto) che rievoca il tessuto urbano della Venezia “minore”. E’ una “casa del silenzio” che sembra essere sempre stata li’, invecchiata come i vicini depositi navali. E’ già rovina. Rudere che pero’ non evoca drammi o ricordi melanconici, ma solo la serenità del tempo ed il senso della storia. Qui il visitatore può fermarsi per riposare e riflettere. E’ un’opera “domestica” che esprime il concetto di “normalità” e, per questo, la rende più grande di come appare.

Siamo entrati all’Arsenale. Percorriamo le Corderie in direzione dell’ingresso. Ci fermiamo. L’istallazione intitolata “Elbphilharmonie” (la Filarmonica di Elb ad Amburgo) ad opera di Herzog & de Meuron è focalizzata sulla “storia di cronaca” di un loro progetto (allo stato) mai completato. E’ la complessa vicenda di una sala da concerto posta in cima ad una ex fabbrica della città (che comprende anche 250 camera d’albergo e 47 appartamenti), la cui costruzione, sebbene ad uno stadio piuttosto avanzato, ad un certo punto subisce un lento rallentamento a causa della lievitazione dei costi di costruzione e di li’ a poco il consecutivo arresto del cantiere. Era il novembre 2011. Cosi’ mentre nel giro di poco tempo il sito si trasforma in un “campo di battaglia” (non solo fisico ma anche mediatico), una sorta di “rovina della modernista”, i tre principiali attori (il cliente, il general contractor, e l’architetto) diventano protagonisti di una ricca rassegna stampa che qui diventa allestimento con le gigantografie degli articoli pubblicati nei giornali tedeschi insieme ad inquadrature panoramiche del sito di costruzione e modelli del progetto.

In questa “storia” i noti architetti svizzeri hanno messo a nudo il coitus interruptus di un edificio le cui “drammatiche” vicissitudini possono essere rappresentative (in scala più ampia) di innumerevoli “delusioni” simili in giro per l’Europa e in altre parti del mondo a causa dalla crisi economica globale. Nel loro caso pero’ l’installazione e’ stata pensata senza voler prendere una presa di posizione “personale” con l’obiettivo di documentare la complessità della vicenda (attraverso l’interessamento dell’opinione pubblica e le contestatissime critiche (di natura politico-culturale, economica e di orgoglio civico) che hanno generato il lungo dibattito sul tema che – secondo gli autori – hanno contribuito a migliorare il progetto e soprattutto a renderlo più condiviso. Il risultato, uno straordinario “monumento incompiuto” del nostro tempo che e’ già storia anche se mai completato.

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© arcomai l Elbphilharmonie, di Herzog & de Meuron.

Ormai nei pressi dell’ingresso ufficiale della mostra, rimanendo geograficamente in zona Germania, troviamo il plastico intitolato Monument for modernism, con il quale il giovane architetto Robert Barghardt si e’ laureato nel 2009. Il progetto e’ un un collage di frammenti di architetture moderniste assemblati a formare un nuovo fabbricato a Berlino per un “…contesto – dice l’autore – ricco di storia e legato alle storie. Il progetto e’ in se’ un paradosso in quanto monumento che rispecchia questo legame con la storia. Ci sono degli elementi un po’ giocosi; e’ un edificio vuoto che e’ un monumento, un pezzo di architettura pura, una rappresentazione, un assemblaggio di simboli […] “E’ una forma di ricostruzione, ma non di qualcosa già esistente. Il lavoro ha le sue radici in un’esperienza che ho fatto nella ex Jugoslavia, dove c’è una grande eredita’ in fatto di architettura dai tempi del socialismo che oggi tende ad essere trascurato, ma che io credo molto importante in quanto eredita culturale, non solo formalmente. E’ una traccia dei tempi e delle condizioni sociali del passato”.

Ciò che affascina Barghardt del modernismo sono i modernisti “…perché furono davvero figli del loro tempo, delle possibilità del loro tempo e forzarono i limiti delle loro presente. A Berlino negli ultimi 10-20 anni c’è stato un accesissimo dibattito sulla ricostruzione di alcuni edifici e la distruzione di altri, storicamente connessi a scontri ideologici”. Come per Herzog & de Meuron anche per l’architetto tedesco e’ importante che non ci sia una sola storia ma tante storie legate a diversi strati della società, interessi economici e politici. Il motivo per cui Chipperfield ha scelto questo lavoro – ha spiegato l’autore – e’ perché lo ha visto come un’opera di “architettura pura”. Ciò e’ particolarmente interessante perché, spiega il nostro, durante i suoi studi ha “…lottato molto con l’idea di essere architetto, rigettando l’idea delle forme, del formalismo e dell’architettura per architettura. Ed ora, ironia della sorte, il mio lavoro e’ proprio un pezzo di architettura per architettura”.

Questo “monumento” e’ una composizione “per parti”, “per pezzi” autonomi e riconoscibili – e quindi “incompleto” – che una volta assemblati diventano “forma” (dopo/post-moderna) in evidente contraddizione con la “purezza” del monumento modernista. E’ un edificio che – se costruito oggi – diventerebbe, per un usare un temine oggi molto usato, un “iconic landmark building”, un oggetto parziale, avulso, nichilista incapace di rappresentare più’ (l’allora) immagine “vissuta” della città da parte dei “figli del loro tempo”. Un oggetto che diventa surreale e quindi “paradosso”, per citare un temine usato dall’autore, per poi tornare ad essere monumento.

Queste tre opere sono un elogio alla “monumentalità” intesa non come magnificenza estetica e dimensionale di un oggetto costruito, ma come espressione di quei fattori immateriali come il tempo, i significato, l’identità che rendono un edificio più grande delle sue dimensioni fisiche (monumento), perché espressione della società e del suo tempo. Noi Europei veniamo da una tradizione in cui lo spazio pubblico, così altamente istituzionalizzato, e’ sempre stato estetizzato e quindi monumentalizzato. Solo i monumenti, quegli straordinari edifici che – anche se “incompleti” o addirittura “non costruiti” – danno gerarchia e “misura” alla città; che ci rendono diversi dagli “Altri:. Liberiamo l’edificio dall’ideologia (extra-europea) dello “iconico” perché ciò porta al declino dell’idea di monumento, all’inaridimento del nostro “Terreno comune”.

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© arcomai l Monument for modernism, di Robert Barghardt.


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