VeMa: la città nuovissima dopo 2000 anni di storia

Richard Burdett dedica 300 metri di Arsenale a raccontare 16 megalopoli (Caracas, San Paolo, Los Angeles,  New York, Bogotà, Mexico City, Cairo, Johannesburg, Instambul, Londra, Milano – la più piccola, 2 milioni di abitanti – Mumbai, Barcellona, Berlino, Tokio, Shangai) individuando 4 continenti dove si segnalano città con più di un milione di abitanti, raddoppiabili nel 2015. Mostra la diffusione delle città nel territorio, il loro progressivo avvicinamento, che genererà, a breve, in Europa, la fusione delle capitali in un’unica grande città al centro dell’Europa (ed anche l’Italia diverrà una città continua di 46 milioni di abitanti). Parla di architettura solo in funzione della società che la abita, di problemi di sostenibilità, mobilità, energia ed ambiente, racconta le città utilizzando diagrammi mobili, di crescita, video, statistiche, foto aeree. Presenta (velocemente e da una visione un po’ troppo allargata) i problemi, la complessità (ma forse troppo semplificandola con numeri e diagrammi…), ma l’architettura è quasi assente e non dà risposte.

Al termine del percorso il padiglione italiano, curato da Franco Purini (con Nicola Marzot, Margherita Petranzan, Livio Sacchi) ci fa cambiare di direzione. La figura dell’architetto, improvvisamente, riconquista un ruolo importante per la città del futuro, e si progetta VeMa, città di 30.000 abitanti (esempio decisivo per la realtà europea delle città piccole, prima non rappresentata),  in un rettangolo definito di 2260 per 3700 metri, scelto in un’incontaminata Pianura padana fra Mantova e Verona (che forse non cresceranno oltre e rimarranno divise, o VeMa servirà a saldarle in un’unica città diffusa… come già il nome, tutt’altro che ideale, fa pensare); VeMa è una città di fondazione in un territorio paragonabile a quello che i Romani trovarono 2000 anni fa; la città diffusa è lasciata a qualche km di distanza, i problemi di mobilità dimenticati, assente la/e stazione/i, ridicoli i raccordi stradali di arrivo (ma vi si arriva solo in auto?). Dice Purini (L’Arena 09/09/2006): “Tra Verona e Mantova, come risulta da uno studio di Nomisma (del quale noi non avremmo sentito la necessità) che ci ha messo a fuoco le caratteristiche socio-economiche e logistiche del territorio c’è un quadrilatero che dal punto di vista ambientale, imprenditoriale e culturale è di enorme pregio e sintetizza la città del futuro che abbiamo progettato per un’Italia tra vent’anni (…) Verona e Mantova hanno tanti aspetti in comune, dal punto di vista architettonico e urbanistico. Sono città ideali in cui vivere, e proprio partendo da qui abbiamo collocato Vema fra le due province (…) Vema è una possibilità, un’idea di un luogo in cui tutti possano vivere. Certo, poi occorre trovare una sintesi con le esigenze amministrative. Ho già illustrato il progetto al sindaco di Mantova e ne ho accennato a quello di Verona. Il plastico, comunque, il più grande mai realizzato di una città, sarà esposto in futuro anche nelle due città”.

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© biennale-VE l 10. Mostra Internazionale di Architettura. CONVERTIBLE CITY – Forme di densificazione ed espansione. Padiglione della Germania.

Il futuro è, dunque, una città nuova, alla faccia dell’interessantissimo padiglione tedesco pure in Biennale convertible city che vede il futuro solo nella trasformazione e nella modifica dell’esistente, nella sovrapposizione, nella stratificazione; si legge dal loro catalogo: “Il contributo tedesco alla 10. Mostra Internazionale di Architettura Venezia 2006 ci porta nei centri storici delle grandi città tedesche, in quei luoghi in cui alle più antiche tracce del passato si sovrappongono i segni del futuro (…) progetti esemplari tematizzano le diverse forme di riconversione sostenibile, di densificazione ma anche di metamorfosi dell’architettura e della struttura urbana verso nuovi modi dell’abitare e del lavoro…”; VeMa è progettata da gruppi di giovani architetti italiani, obbligatoriamente scelti under40; a ognuno di essi è affidata una parte delimitata.

La città finale è rappresentata da un plastico, bianco, esercizio quasi concettuale fra arte ed architettura, dal risultato simile alle concezioni di spazio di Fontana (per questo molto interessante; peccato, però, che l’affascinante labirinto a torri che spicca su tutto il resto sia poi il cimitero, di dimensioni colossali). In realtà i progetti, anche molto diversi tra loro, sono tenuti assieme solo da un colore, un perimetro, una posizione. Sembrano per la prima volta insieme qui in Biennale. La pluralità non genera scontro, sovrapposizione, interferenza, ma successione, addizione, esempio. In realtà la città ideale perde la regia e diventa l’unione casuale di tante città ideali (alcune senz’altro con ottimi spunti)…ma il tentativo del nuovo, come una beffa, ha in realtà ri-generato il peggiore caos…; si tratta di tanti progetti, anche belli, ma contrastanti e scollegati; siamo obbligati a leggerci le relazioni per capire le possibili innovazioni che dal plastico non si intuiscono affatto.

Purini, architetto e professore ordinario di Composizione architettonica e urbana nella facoltà di architettura Valle Giulia dell’Università La Sapienza di Roma ci voleva invece dire che la risposta alla città diffusa c’è ed è ordine, disegno, forma. Questo ci parla delle Università italiane, più interessate all’arte che all’architettura, all’utopia che alla realtà. L’Italia, che vanta ormai record di facoltà e nuove immatricolazioni fra Architettura ed Ingegneria Edile e mille nuove Facoltà affini è il Paese dove di architettura se ne fa di meno ma che ha il primato in mostre, dibattiti, riviste,….

Ma davvero il nuovo saprà risolvere il nostro futuro, quando anche tutte le città ideali della storia sono state un fallimento? Chissà perché proprio l’architettura, fra tutte la meno adatta, si deve ritenere una scienza esatta che dà risposte certe e definitive, quando invece la nostra conoscenza, anche scientifica, procede per tentativi ed errori, successivi aggiustamenti, modificazioni.

Sono d’accordo con un mio Maestro  (tale prof. Roberto) quando dice: “…In genere si può dire che sono più brutte le città cresciute più rapidamente. Non c’è stato il tempo di ripensarci, di correggere gli errori, di aggiustare il tiro. Si dovrebbe pensare ad una città come ad un’opera incompiuta, lasciando lo spazio ed il modo a chi verrà dopo di correggere gli errori che inevitabilmente facciamo e faremo. La bellezza di certi luoghi è determinata dal fatto che si sono costruiti nell’arco di molti anni (…)L’architettura era il palinsesto sul quale si è scritto per secoli storie diverse, opera d’arte a più mani, dove si scriveva cancellando. E’ giusto che si guardi con rispetto le cose che hanno resistito nel tempo, che hanno saputo trovare una loro diversa funzione, un nuovo modo di rapportarsi alla realtà… Le cose si aggiustano col tempo, anche quelle sbagliate. E’, comunque, un errore pretendere di progettare tutto in una volta sola. L’operazione di fondare una città dovrebbe essere giustificata dall’impossibilità di modificare città che esistono già”. (Sui muri e su altre più serie divisioni: ragionamento fiorentino n. 2, Alinea, Firenze 1998).

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© biennale-VE l 10. Mostra Internazionale di Architettura. Nuovo Padiglione italiano: ITALIA-y-2026. Invito a Vema. Vema 2026, Veduta aerea della città e inserimento dell’intervento in un fotopiano satellitare tratto dal sito www.padiglioneitaliano.org.

 

 


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