Il rusco per ri-pulire la citta’

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© arcomai l Fotogrammi tratti dal servizio su Bologna dedicato dal programma Lucignolo /Italia 1 di giovedì 22 giugno.

Si è conclusa sabato scorso a Bologna in Piazza Verdi (nel cuore della zona universitaria) L’ecole del rusco: tre giorni d’arte e rifiuti a Bologna, un progetto promosso dalla  So. Coop a.r.l. 500g che, nell’ambito di servizi a scopo turistico, organizza iniziative a sfondo etico e sociale. L’evento, inserito nel programma della rassegna estiva del Comune di Bologna bè-bolognaestate06, è stato patrocinato oltre che da Palazzo d’Accursio, dal Quartiere San Vitale, dalla Regione, dalla Provincia e dalla società HERA, il gruppo leader nazionale nei settori energetico, idrico e ambientale che opera in Emilia-Romagna e ha sede a Bologna. ARCOMAI, presente alla conferenza stampa di giovedì 15, ha seguito la manifestazione nel suo complesso interessato alle tematiche inerenti al riuso alternativo di rifiuti finalizzato alla creazione di opere d’arte nonché all’obiettivo, espresso congiuntamente dall’ente organizzatore e dai patrocinatori, di voler contribuire con questa iniziativa alla “riqualificazione di una delle aree più degradate della città”.

Quindi “degrado” e “riqualificazione” come “male” e “medicina” della città modernità anche qui a Bologna. Sembrerebbe tutto molto bello, eppure questi due termini, apparentemente innocui, sono per noi tra i più grandi nemici per chi fa progetto: troppo ambigui per poter definire ciò che non va, troppo neutri per poter individuare caratteristiche e modalità di intervento. Non c’è quindi da sorprendersi come, quando a seguito di un fatto di cronaca, vengano pronunciati in modo propedeutico da chi detiene il primato della “parola” vale a dire quella “voce” della politica che – sempre più ventriloqua e in tonalità bipartizan – grida unanimemente dai “quartieri” alle “camere” contro il “degrado” che, con i fatti delle banlieues francesi, sta seminando paura e terrore in tutta Europa. Il degrado non esiste se non si spiega che cosa si intende con questa parola; lo stesso vale per la riqualificazione se non si dichiara con quali strumenti deve essere orientata l’azione di intervento, se non si prevede nell’atto del cosiddetto “qualificare” la possibilità di agire con progetti radicali in cui l’architettura possa divenire matrice di cambiamento.

In Italia il dibattito sulla città sembra spostato dalla cosiddetta “periferia” al cosiddetto “centro” più o meno storico senza però aver chiarito prima quell’approccio dialettico che dimostri di aver compreso le diversità dei due fenomeni. Bologna per il valore simbolico che l’ha sempre distinta è da qualche tempo oggetto d’attenzione da parte dei media. Proprio ieri sera – mentre si scriveva questo contributo – il programma Lucignolo di Italia Uno ha visitato la città durante la manifestazione, da noi documentata in questo contributo, andando alla ricerca del fantasmagorico degrado madeinbo.  La telecamera ha ripercorso il “corridoio” di via Zamboni, tapi rulont della cittadella universitaria, e una volta giunta in Piazza Verdi si è soffermata velocemente sul workshop Wrekon Mutoid Laboratory, l’officina creativa che per due giorni ha elaborato opere d’arte ricavate da oggetti metallici di scarto.

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 © arcomai l Alcuni momenti del workshop Wrekon Mutoid Laboratory in Piazza Verdi.

Dal corto-metraggio televisivo si scopre – per chi non è di Bologna – che la città della prima università al mondo è abitata oggi da una popolazione atipica composta non solo da ragazzi – che poco hanno a che fare con la ”capitale del sapere” – ma d’elevato numero di cani a loro seguito. È questa forte presenza di segugi che caratterizza in tutta la sua anomalia questa storica area di Bologna che trova poi nelle attività di “disobbedienza” dei loro padroni ciò che il sindaco, i giornali e i comitati antiproibizionisti di quartiere identificano come degrado. Così Piazza Verdi, simbolo di una Università così rinomata da non risultare neanche tra le prime 80 del mondo, è diventata per i Bolognesi la “isola dei pirati” dentro la grande “isola pedonale”, orgoglio di un capoluogo che per primo ha importato in Italia quel modello del “divieto dell’auto” –  brevettato dalla cultura tedesca fine anni ’70 – senza però integrarlo con un sistema aperto di programmi propedeutici di intervento in grado di impedire ciò che purtroppo, allo stato, caratterizza molte città italiane: una micro conurbazione di aree tematiche (studio, commercio, svago, …) ognuna col proprio “bollino di qualità”, un arcipelago di enclave mono-funzionali – e a volte classiste – per alcune dalle quali è difficile intervenire ove necessario non solo sul piano strutturale ma soprattutto su quello simbolico. Allo stesso modo la “mitica” Via Zamboni, sebbene percorsa vivacemente durante il giorno da migliaia di studenti, è un “luogo altro” perché da questi abbandonata dopo cena, attratti dalla vita notturna di Via del Pratello creando, a dire del comitato antiproibizionista – che poi ha, paradossalmente, nelle sue fila gli speculatori dell’abitare – di quell’area occidentale del centro storico, ulteriore degrado.

Se in questa area della città qualcosa non va, ciò non deve essere spiegato solo con l’uso improprio che lo “esercito irregolare” ripreso dalla televisione fa della zona universitaria che, tra l’altro, oltre ad occuparla abusivamente, ne è involontariamente anche custode dei suoi valori. Così si mitizza il cosiddetto degrado: da una parte “i pirati” sentono proprio un territorio che, come “servitù prediale”, loro credono gli spetti; dall’altra le autorità insieme all’opinione pubblica, incapaci perché disarmati dalla “ideologia del permissivismo” da loro creata, piangono a braccia conserte la loro impossibilità di “vorrei riqualificare ma non posso”. Risultato, tutti contenti: i disobbedenti vengono riconosciuti come categoria sociale: esistono e quindi sono legittimanti; il palazzo ogni tanto alza la voce distogliendo così l’attenzione dalla propria incapacità di interpretare in modo diverso il “fattore città”, nascondenso alla cittadinanza la totale assenza di un disegno di urbanità.

Se in questa area della città qualcosa non va, ciò è l’effetto e non la causa di uno stato di criticità. È possibile che a nessuno è venuto in mente di riconoscere in questa “anomalia” qualcosa di più serio – perchè più grosso – come la decadenza/crisi della “scuola italiana”, intesa come “madre” generatrice di una classe dirigente che trova ragione nel suo essere dalla forza delle generazioni più giovani; che insegna ai ragazzi di non farsi più mettere più i piedi in testa da quella gerontocrazia degenere che lentamente ha ucciso la dignità dell’intera società italiana. Invece, ciò che per secoli è stata la “multinazionale del sapere”, oggi, altro non è che una “zecca mediatica” capace solo di regalare – come presa in giro per chi studia – lauree honoris causa a cantanti o cadaveri incompresi (Vasco Rossi, Giovanni Marconi)? La marea di studenti che consuma il pavimento di Via Zamboni non sarà, purtroppo, la classe dirigente di una “condizione nuova”. Allora, non prendiamocela con Piazza Verdi; non riduciamo l’abitare solo ad una questione di ordine pubblico.

Bologna era la “capitale del sapere” e come tale era “centro informazionale”; oggi è solo la città della “contro-riforma”, della “censura”, della “mono-cultura” che inaridisce il “terreno del pensiero”. Dove sono finiti i grandi progetti per Bologna (vedi Del Futuro architettonico)? C’è la consapevolezza di dover partire da QUI per da vita ad una stagione nuova per tutto il Paese?; di ri-formare la prima “scuola del vivere civile” al mondo in modo da “alfabetizzare” chi governa le nostre città? In Italia il degrado (urbano) altro non è che una moneta con due facce che ognuno spende come vuole. Per chi è fuori da questo “mercato”, e crede nel progetto come strumento di cambiamento, deve soltanto auspicare che presto succeda qualcosa di imprevisto capace di dare uno schiaffo all’imperante “ideologia del piagnisteo”, che si attivi una terapia di tipo chemioterapica e non omeopatica e tanto meno chirurgica, perché intervenire su “ciò che non va” non vuol dire togliere una cisti dal gomito; significa fare ciò che deve essere fatto. Qui a Bologna, allo stato, è pressoché impossibile per l’architettura adoperarsi come strumento di cambiamento, perchè il suo eco-sistema è minato oramai da decenni da un devastante processo di “subsidenza culturale”: un male silenzioso che non si vede in superficie ma che consuma le risorse di questa terra che, da secoli impastata sottoforma di polvere di mattone con l’intonaco, ha donato quell’inconfondibile colore cremesi alle case di Bologna. Il “progetto” non può crescere finchè il territorio è arido, finchè non è stato bonificato il terreno non dalle bottiglie di birra abbandonate da ragazzi – che non sanno di non esserlo più da tempo – dopo una notte di divertimenti, ma da quella “famiglia di senatori a vita” che ci governa con la demagogia della “politica del non rischio”.

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© arcomai l Fotogrammi tratti dal servizio su Bologna dedicato dal programma Lucignolo /Italia 1 di giovedì 22 giugno.


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