Architettura contemporanea altoatesina

Si è inaugurata venerdì 3 febbraio presso il Museo arte di Merano (BZ) la mostra “Architettura recente in Alto Adige 2000-2006”. Abbiamo intervitato Joseph Grima che [insieme a Roman Hollestein (redattore Architecktu NZZ, Zurigo); Hanno Schlögl (architetto, Innsbruck) e la curatrice del progetto Bettina Schlorhaufer (storica dell’arte, Innsbruck)] ha fatto parte della giuria internazionale, scelta per selezionare i progetti esposti. La mostra rimarrà aperta al pubblico fino al 17 aprile.

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© Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

Nicola Desiderio. Lei ha fatto parte della giuria che ha selezionato 48 delle 400 opere oggi esposte al Museo Arte di Merano in una mostra allestita per illustrare al grande pubblico la recente produzione architettonica altoatesina. Ci può dire con quale modalità è stato raccolto il materiale messo a vostra disposizione e i criteri che hanno portato alla selezione dei progetti esposti e/o all’esclusione degli altri?

Joseph Grima. E’ stata fatta una preselezione di circa 100 progetti in base ad una breve descrizione ed alcune immagini. In seguito la curatrice e i giurati hanno visitato in persona (quasi) tutti questi progetti, segnandosi le proprie impressioni sul posto. E’ stato uno dei fattori che ha contribuito maggiormente a rendere questa mostra una riflessione approfondita e qualificata sull’architettura della regione: troppo spesso queste selezioni vengono fatte esclusivamente su carta.

 

N.D. Nel comunicato stampa (a cura del Museo Arte di Merano) si legge che: “Gli edifici costruiti o restaurati appartengono a diverse tipologie come musei, case, edifici commerciali e impianti di risalita. Ogni singolo progetto ha sempre tenuto in considerazione la tradizione architettonica altoatesina e non ha mai dimenticato il paesaggio regionale. Gli architetti non solo si sono orientati verso scelte contemporanee, ma sono stati in grado di mantenere aperto il dialogo con la naturale cultura edile-architettonica.” In breve, quali sono le peculiarità della tradizione architettonica altoatesina?

J.G. Il grado di “apertura” verso la “naturale cultura edile-architettonica” variava (com’è prevedibile) molto di progetto in progetto, ma in generale abbiamo apprezzato un desiderio di sperimentare con forme e materiali influenzati – ma non sopraffatti – dalla tradizione. Geograficamente, amministrativamente ma anche culturalmente l’Alto Adige gode di un certo grado di autonomia dal resto dell’Italia e questo ha permesso lo svilupparsi di un linguaggio architettonico proprio, sia nelle forme che nei materiali: identità.

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© Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

N.D. I progetti esposti sono presentati tramite planimetrie, testi, modelli e foto.  Riguardo al reportage fotografico trovo particolarmente intelligente come le architetture esposte siano state riprese da un solo obiettivo (quello del fotografo austriaco Robert Fleischanderl) e stampate in un unico/uguale formato “quadrato”. Durante la selezione del materiale questa scelta vi ha agevolato? L’allestimento così concepito si presta, inoltre, ad una più facile lettura da parte del visitatore?

J.G. Credo che ci sono vantaggi e svantaggi in questa rappresentazione per immagini. E’ una mostra estremamente coerente, che forse – più che tentare di offrire una comprensione approfondita di ogni singolo progetto – mira a “mappare” una complessa ma innegabilmente vitale attività progettuale regionale. Il fatto che sia un unico occhio fotografico a rappresentare tutti i progetti esposti permette di percepirli come un’opera nel loro complesso, di sottolineare quello che li accomuna. Bisogna tener conto di quanto siano state importanti le esposizioni per la storia dell’architettura, e di quanti “movimenti” (divenute in seguito molto influenti) siano nati da una riflessione di questo tipo. Ad esempio i Metabolisti, uno dei principali gruppi d’avanguardia architettonica del XX secolo, hanno iniziato – e non finito – con una mostra al MoMA di New York. Non sto dicendo che l’architettura altoatesina contemporanea costituisca un movimento, ma che una mostra di questo genere è importantissima per rafforzare l’identità che ha già, e magari aprire un nuovo capitolo di sperimentazione.

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© Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

N.D. Guardando i lavori scelti sembra riconoscibile (sul piano progettuale) l’influenza – non per questo negativa – che le riviste di architettura esercitano su chi progetta. Si può dire che gli interventi architettonici in aree alpine si prestano meglio che altrove alla [ri]lettura di esperienze progettuali elaborate in contesti anche molto lontani tra loro, o – secondo Lei – questa coincidenza di linguaggi compostivi è il diretto/naturale dialogo tra popoli legati da una comune cultura nordica?

J.G. Sicuramente il clima e il contesto geografico “nordico” dell’Alto Adige fa si che le influenze siano più alpine o scandinave che mediterranee, e in questo non credo ci sia nulla di nuovo né di paradossale. Però quello che lei dice è vero – “contaminazioni” (in senso positivo) di correnti progettuali provenienti da lontano non mancano, cosa peraltro inevitabile se si considera la proliferazione di sorgenti di notizie e di immagini a disposizione dei progettisti. Più ancora che alle riviste, che del resto sono sempre le stesse, credo che questo sia dovuto a internet. Infinite informazioni, fatte su misura, disponibili immediatamente, se si sa cercare… Credo che la generazione di architetti emergenti faccia parte di una cultura progettuale globale, in cui ha sempre meno senso di pensare a influenze progettuali legati a luoghi specifici.

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© Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

N.D. Nell’opinione pubblica italiana sembra poco gradita la realizzazione di architettura contemporanea soprattutto dentro o in prossimità di ambiti urbani particolarmente caratterizzati. Anche le amministrazioni, ossessionate dalla tutela della “integrità” dei centri storici, sembrano orientate a considerare la periferia il luogo più adatto in cui erigere edifici moderni. Questo modo di vedere la città innesca però e inevitabilmente inedite/mutevoli relazioni tra l’abitato e quelle “campagne” che, gravando attorno ai centri urbani, costituiscono, anche se da secoli addomesticate dall’operare dell’uomo, quegli ambiti territoriali in grado di [inter]relazionare il cittadino con la natura. Natura che nell’immaginario collettivo è (più che la città) il bene primario da tutelare e salvaguardare. Eppure proprio in questi contesti alpini l’architettura sembra non deturpare ma anzi valorizzare il paesaggio. Esiste veramente una cultura così emancipata da parte delle comunità montane, o l’architettura contemporanea è qui “accettata” perché considerata lo strumento (politico) più efficace per esprimere/ribadire una appartenenza/identità che lega queste terre più all’Alto Tirolo che al paese di appartenenza?

J.G. E’ inevitabile che il tema dell’innesto fra tessuto urbano contemporaneo e storico sia problematico in Italia, uno dei Paesi con il patrimonio artistico e architettonico più ricchi del mondo. Il problema si è trasformato, in maniera progressiva dal dopoguerra ad oggi, in un circolo vizioso. Da una parte, la politica “criogenica” del congelamento dei centri urbani che sono diventati invivibili (o perlomeno poco pratici) per il grande numero dei cittadini; dall’altra, un atteggiamento di distrazione laissez-faire nei confronti dell’esplosione sregolata dei grandi “recipienti” residenziali e industriali, le periferie. Questo ha prodotto una situazione in cui i centri storici sono diventati dei musei, spesso disabitate; fuori dai centri è invece scomparsa qualsiasi distinzione fra città e campagna, fra periferia e natura, dando vita a situazioni pseudo-urbane, sfilacciamenti di città a bassissima densità che si estendono lungo le strade statali, poco vivibili e totalmente dipendenti dalle automobili. Che a loro volta richiedono maggiori infrastrutture, aumentando ancora di più l’impatto sulle zone circostanti.

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© Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

N.D. Nel programma di contorno alla mostra è previsto per giovedì 16 marzo (presso la Scuola Professionale Provinciale a Bolzano) un incontro che avrà per tema la “espansione incontrollata di edifici e spazi urbani nel paesaggio altoatesino”. Ciò vuol dire che anche in questa regione – sebbene autonoma e quindi potenzialmente più impermeabile a certi modelli di sviluppo globalizzato del territorio – è in atto un processo simile ad altre realtà del paese. Questo fenomeno è in qualche modo percepibile da chi visita la mostra?

J.G. L’Alto Adige, anche a causa della sua economia in gran parte dipendente dal turismo, non è immune a questa urbanistica dello “sprawl” – anche se è infinitamente più contenuta rispetto a molte altre regioni italiane. Ma abbiamo visto molte buone idee nell’ambito del residenziale; residenze popolari sovvenzionate ad alta densità nella città di Merano, alloggi temporanei per lavoratori innovative e di altissima qualità, come Walter Angonese’s Personal-Wohnhaus Enzenberg. E’ innegabile che un’urbanistica di successo deve poter poggiare su una base di investimento collettivo nel singolo progetto architettonico, e questo è uno degli scopi della mostra: evidenziare alcuni progetti che non solo singolarmente, ma anche all’interno del loro contesto urbano, sono sostenibili.

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 © Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

N.D. Il Trentino-Alto Adige è una regione in cui è consolidata ormai da anni una “coscienza” (in materia di risparmio energetico) applicata all’ambiente (vedi: progetto Casa Clima/KlimaHaus) che trova riscontro anche sul piano normativo. Avete rilevato nel materiale da voi visionato questa maturità progettuale/culturale al punto da considerarla un aspetto determinante nella selezione delle opere?

J.G. E’ innegabile che il risparmio energetico sarà un tema con cui gli architetti dovranno, che lo vogliano o no, fare i conti nei decenni a venire. Spesso si pensa che l’estetica o perfino la funzionalità programmatica sono il prezzo da pagare se la sostenibilità ambientale è un requisito, ma in realtà si tratta solo di sviluppare nuovi approcci progettuali che tengano conto sin dall’inizio di questi fattori. Per tradizione, le regioni nordiche sono più vicine a questo modo di pensare, ma spero che in un’eventuale spostamento della mostra in altre parti d’Italia questo tema sarà sottolineato. E’ uno dei fattori che abbiamo tenuto in considerazione, ma proprio per quello di cui parlavo prima, mai a scapito dello spessore progettuale dell’opera.

 

N.D. La mostra allestita a Merano è itinerante e quindi predisposta a viaggiare. ARCOMAI verificherà la disponibilità da parte dell’ente promotore della mostra di programmare, prima di andare probabilmente all’estero, una tappa anche a Bologna. Quali sono – secondo Lei – gli aspetti più rilevanti di questa produzione altoatesina che possono dare un contributo al dibattito sull’architettura in Italia?

J.G. Credo che la discussione e un incontro in occasione di eventuali spostamenti della mostra sia un requisito fondamentale, perché dalla semplice lettura visiva possono non emergere tutti i temi di cui abbiamo parlato nei punti precedenti. In generale, vedo nell’architettura degli ultimi 5 anni dell’Alto Adige un ottimismo e una voglia di sperimentazione che non c’è in molte altre parti d’Italia. Sembra aleggiare in questo momento un’aria di scoraggiamento sull’architettura italiana, che è senz’altro spesso giustificato da circostanze molto difficili, ma che pregiudica in partenza la nascita di una nuova energia progettuale in questo Paese. Mi ha colpito, in Alto Adige, il desiderio di iniettare “architettura” in opere di ogni scala, dai più piccoli appartamenti alle grandi università, e sono abbastanza sicuro che un entusiasmo di questo genere possa allargarsi per dar vita ad una rinascita dell’architettura contemporanea in Italia.

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  © Photo Andreas Marini l Viste dell’allestimento.

 

Joseph Grima, architetto, si è laureato nel 2003 all’Architectural Association di Londra. Dal 2003 è consulente alla direzione per la rivista Domus. Collabora anche come giornalista e fotografo a varie testate nazionali e internazionali fra cui il Domenicale del Sole 24 Ore, Tank, China Art Review, ScoopWWD e Revista BASA. E’ un visiting critic alle scuole d’architettura dell’Architectural Association, Yale, e Trondheim Academy of Fine Art. Dal 2005 è dottorando al Centre for Research Architecture del Goldsmiths College, Londra.

 


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