La casa vuota

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Copertina del film Ferro 3 – La casa vuota. Regia, Kim Ki-duk (Sud Corea, 2004). Distribuzione, Mikado.

L’abitare nelle grandi metropoli contemporanee spesso toglie agli individui capacità di identificazione, riconoscibilità e potenzialità di affermazione; ma proprio per questo la città di grandi dimensioni ha anche il magico potere di rendere le persone invisibili, consentendo loro quasi un possibile eremitaggio (purtroppo a volte obbligandole a questo), pur in una vita vissuta in mezzo agli altri. Tae-Suc vive così, passando inosservato, senza lasciare al mondo alcuna traccia tangibile della sua esistenza, se non quelle, più profonde, impresse nella memoria e nell’immaginazione della persona amata, nella sua invisibile anima… Egli vive in case momentaneamente vuote, i cui proprietari sono scelti a rappresentare uno spaccato trasversale sulla società, divisa in classi, ma “democratizzata” dal vuoto che ne accomuna le abitazioni. Dalle case non ruba nulla, non trattiene oggetti, ma ricordi (di ognuna scatta una foto), e restituisce ad esse un suo ordine, aggiustando oggetti, lavando abiti, pulendo.

Penso che il regista Kim Ki-Duk in questo film tenti di rappresentare l’immateriale; ma cos’è il silenzio se non l’assenza di suoni? La solitudine se non una mancata presenza? Possiamo percepire il negativo solo come contrapposizione al positivo, descrivere un vuoto solo in riferimento ad un pieno, secondo la famosa logica percettiva del rapporto figura/sfondo. Un’assenza non è il niente, ma una mancata presenza di qualcosa o qualcuno, un rimando. Per questo il vuoto, più che il pieno, riesce a descrivere l’immateriale, perché ha il potere immaginifico dell’evocazione; l’assenza è una realtà densa di infiniti rimandi mentali soggettivi affidati ai ricordi, al vissuto, al trascorso personale di ciascun individuo che la abita. Ognuno, vedendo questo film, ne vede uno del tutto personale, diverso. E’ più vera la nostra realtà privata (unica possibile esperienza che ci è dato di conoscere) o quella che intuiamo essere del resto del mondo e che possiamo, solo in analogia a noi, immaginare?

Kim Ki-Duk descrive la realtà del mondo (il positivo) tramite assenze (forse in modo abbastanza familiare alla cultura orientale, da sempre virtuosa in un’estetica del vuoto che poco appartiene ancora a noi occidentali, tuttora vittime dell’horror vacui). Protagonisti del film sono, infatti, il silenzio (che svela un mistero indicibile alle parole), il vuoto delle case, simili a calchi che portano in negativo i segni dei loro abitanti, l’assenza di senso che c’è nell’imprevedibilità della vita e nell’esistere della violenza, l’invisibilità di Tae-Suk (che nella prima parte sembra esistere, ma senza essere mai visto da nessuno – tranne che da lei, Sun-hwa, che, come direbbe Saint Exupery, riesce a cogliere “l’invisibile agli occhi” – nella seconda diventa quasi spirito, immaginazione, esiste solo nei pensieri e nei gesti di lei). Infatti: Tae-Suk esiste davvero o è solo ciò che a Sun-hwa manca, la sua solitudine che si trasforma in sogno?

Il film è un interessante processo verso l’astrazione (“less is more” per usare le famose parole di Mies van der Rohe) che arriva a creare ambiguità, riflessi, inganni, trasparenze che ricordano i paralleli tentativi di smaterializzazione (virtualità?) fatti da una recente architettura, da Jean Nouvel a Kengo Kuma – passando per Rem Koolhas – ”Dove c’è il nulla tutto è possibile”.

E se Tae-Suk  invece esiste, cosa gli fa scegliere di vivere pezzi di vita e luoghi di altri, di non possedere oggetti suoi “fissi” (l’unico da lui posseduto è la mobile motocicletta), di volere passare inosservato, lasciando solo timidi segni di un ordine ideale di cose aggiustate (a ricordarci la precarietà degli oggetti che inevitabilmente si rompono), case riordinate, alla ricerca di quello che può sembrare l’unica libertà: l’assenza di legami con gli altri, finché non incontra Sun-hwa; allora scopre che la salvezza dei singoli è nell’amore che trasfigura i corpi, cancellando i limiti fisici delle persone, la loro individualità, incomunicabilità, regalando a ciascuno un’improvvisa leggerezza, facendo espandere i corpi nello spazio che librandosi diventano spirito e sono ovunque? (- o invece il finale è la definitiva rinuncia a vivere la realtà e la decisione, dunque, di rifugiarsi nei sogni? -).

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Fotogrammi tratti dal film Ferro 3 – La casa vuota.

 


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