Architetti in rivolta: Liberiamo il paese dai colleghi stranieri

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Corriere della Sera di mercoledì 7 settembre 2005.

Nella puntata radiofonica della seconda edizione de L’ERA URBANA – andata in onda su RADIO RAI 3 lo scorso 23 maggio – Gregotti – intervistato, nell’ambito della puntata dedicata alle trasformazioni urbanistico-architettoniche di Milano, dichiarava, riferendosi ai grandi progetti che stanno ridisegnando lo sky line della città lombarda ad opera di illustri colleghi stranieri (Libeskind, Hadid, Pelli, Pei, ..) , che l’Italia sta diventando un paese del terzo mondo, un territorio in via di colonizzazione da parte di prestigiose firme internazionali che, grazie anche all’abuso della tipologia a torre/grattacielo proposta nei loro progetti in Italia, si stanno appropriando delle nostre città. A tali critiche Zaha Hadid rispondeva irritata sostenendo che tutta l’Italia è fatta di torri basti pensare ai campanili delle chiese o a alla Torre di Pisa. Questo battibecco – a distanza e in differita visto che le interviste erano registrate – sembrava essere un episodio singolo destinato a consumarsi all’interno di un dibattito circoscritto ad un ambito locale seppur importante come quello di Milano. Invece – stando all’articolo apparso oggi sul Corriere della Sera (a firma di Pierluigi Panza) – quella che all’epoca poteva apparire solo l’esternazione personale di un professionista escluso da progetti importanti per la sua città, si è dimostrata il segno anticipatore di uno “stato di malessere” condiviso e organizzato da un gruppo di architetti italiani che in 35, uniti dalla sottoscrizione di un documento congiunto, denunciano, oggi, lo strapotere in territorio nazionale di colleghi non italiani e difendono la “irrinunciabile risorsa culturale che non può essere ulteriormente vanificata e ignorata”.

Ma chi sono questi giovani ribelli che protestano per le rare opportunità di lavoro e per l’invasione di progetti stranieri? Da quali radici culturali muove il loro messaggio sovversivo? Rappresentano una nuova frangia di estrema destra o un gruppo di attivisti no-global? Sono un nuovo movimento universitario o la cellula impazzita di qualche Ordine professionale che, a pochi giorni dalle elezioni (provinciali e nazionali), esce allo scoperto con un disegno destabilizzante finalizzato a creare disordine e magari a tentare di condizionare gli esiti delle votazioni democratiche dei nuovi Consigli? Con sorpresa scopriamo che i caporioni di questa brigata di sciovinisti rivoluzionari sono lo stesso Vittorio Gregotti (classe 1927) seguito da Paolo Portoghesi (classe 1931), Guido Canella (classe 1931), Ettore Sottsass (classe 1917), Antonio Monestiroli (classe 1940) per fare solo alcuni nomi di coloro i quali hanno aderito con la loro firma a questo appello tra l’altro inviato ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato.

Da quanto riportato dal giornalista in questo articolo sembra che la situazione “drammatica” in cui versa la cultura del progetto in Italia sia dovuta al fatto che si privilegiano i progettisti stranieri piuttosto che quelli italiani perché questi hanno avuto la possibilità di acquisire nei loro paesi – grazie alla realizzazione di grandi opere “di interesse sociale” – competenze tali da far privilegiare questi ai nostri architetti che si vedono ora sfuggire di mano analoghe “occasioni di lavoro”. Questa condizione di stallo che determina l’impiego sempre più massiccio di architetti stranieri nelle opere pubbliche e artistiche è stata poi spiegata con lo strapotere esercitato dalle soprintendenze che in modo autoritario impongono ancora oggi il loro veto nei confronti di “molte opere significative rimaste sulla carta”. Questo stato delle cose verrebbe superato qualora in sede ministeriale – e precisamente all’interno del DARC (Direzione Generale per l’Architettura e l’Arte Contemporanea) – si attivasse una “commissione pluralistica” che potesse agire come supervisore delle singole realtà locali, così da ridimensionare lo “autonomismo” decisionale delle incriminate soprintendenze. Tesi che viene condivisa anche da Mario Botta che dice “…La figura del soprintendente è un po’ arcaica, borbonica, va riformata se crediamo che il progetto sia ciò che trasforma la città”.

E’ forse plausibile che questi illustri firmatari, alcuni sulla scena da mezzo secolo, non abbiano a che fare con le cause e gli effetti del disastro culturale architettonico e urbanistico italiano che essi stessi denunciano? L’arretratezza in cui ci troviamo è frutto solo dei veti dei poteri borbonici della soprintendenza, dei veti burocratici delle Amministrazioni, e di quanti non hanno la segreta sensibilità al progetto in Italia che solo i firmatari sembrano avere? Si tratta di architetti famosi tutti professori universitari che di opere in Italia ne hanno firmate e di opportunità ne hanno avute. Hanno progettato e realizzato, qualche cosa  è venuta bene, altre meno. Ma cosa vogliono? Quante altre opportunità vogliono? Hanno forse pensato a dare spazio ai loro allievi nelle facoltà di architettura? Hanno pensato a fornire ai loro studenti una preparazione adeguata per competere professionalmente sullo scenario globale? Sono solo un paio i grossi nomi italiani che competono all’estero grazie a fabbriche fordiste di giovani architetti “meticci”. Questi nostri famosi professori-architetti hanno forse pensato che in Italia esistono colleghi “giovani” e meno giovani con zero opportunità di lavoro? Hanno forse protestato perché gli Ordini degli Architetti non fanno alcuna politica di “pari opportunità” per questi? Sì, è meglio parlare di pari opportunità, più che di giovani architetti, perché queste star del made in italy che hanno poche occasioni di lavoro, che insegnano ed hanno insegnato alle università hanno ignorato intere generazioni di architetti dai 30 ai 40 sino ai 50 anni.

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Corriere della Sera di mercoledì 7 settembre 2005.

Certo nella giungla della competizione professionale – homo hominis lupus – non è facile sopravvivere per un architetto soprattutto di questi tempi in cui si paga da decenni la completa assenza di un rapporto serio tra formazione e mondo del lavoro: carenza della quale sono da reputarsi direttamente responsabili proprio loro visto che insegnano e hanno insegnato per anni dentro le facoltà di architettura. Un tempo c’erano i “maestri” dell’architettura che sentivano come “missione” la didattica, oggi ci sono i “professori”. Molti di questi da tempo non hanno voglia di fare i maestri o forse non l’hanno mai fatto per incapacità. E poi c’è la massa degli iscritti, quella degli esami, l’esercito degli studenti. Per pochi di loro (i più bravi) i professori hanno aperto le porte dei loro studi dandogli la possibilità di disegnare (per quattro soldi) a mano libera o al computer, per altri (quelli che sapevano scrivere e parlare) gli è stato chiesto di collaborare (sempre gratis) per mandare avanti i loro corsi. A qualcuno bisognava fargli vincere almeno un dottorato, altrimenti scappava. In ogni caso il massimo dello spazio che questi architetti famosi hanno concesso ai loro allievi è una carriera universitaria in cui si diventa ricercatore a 50 anni. Ci sono anche le carriere fulminanti, ma lì abbiamo a che fare con i grandi temi italiani del nepotismo e des amantes. Nell’era dell’individualismo imperante anche il professore architetto dice “Aprés Moi, le Deluge”, non si sente MAESTRO.

Giuliano da Empoli in un editoriale della rivista Zero (nr. 1/2005, “L’Italia di plastica” Marsilo Editore) – si chiama così perché parte dal presupposto che l’Italia sia arrivata al “grado zero” della capacità di innovazione politica e culturale – dichiara: “Il nostro è diventato il paese degli Arafat: singoli individui e collettività organizzate che, al di là dei loro meriti storici, soffocano ogni possibilità di rinnovamento.” Questi architetti-professori, prima di rivendicare altro da fare, hanno il dovere di affrontare le gravissime responsabilità che hanno nell’aver contribuito a soffocare non solo ogni capacità di rinnovamento in architettura ed urbanistica, ma anche le menti delle generazioni che li hanno seguiti. Tutto questo soffocamento non riguarda naturalmente solo gli architetti giovani di ieri e di oggi, ma un’intera classe dirigente. Chi avrebbe dovuto preparare i dirigenti di un paese moderno? Chi doveva dare opportunità ai progettisti del domani? Dove sono i maestri orgogliosi di trovare giovani talenti? Il maestro era colui che riusciva a circondarsi delle menti più vivaci che spesso mettevano in crisi gli stessi limitati saperi del maestro. Storie d’altri tempi, oggi abbiamo solo professori settantenni che non solo si lamentano perché non riescono a vincere i concorsi importanti, ma addirittura con arroganza rivendicano i diritti di una categoria professionale che certo loro non rappresentano più.


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