Urban Center, seconda edizione. Nulla di nuovo nel ventre di Bologna

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© arcomai l Attimi precedenti all’apertura del nuovo Urban Center.

Si è inaugurato ieri alle 18 il nuovo urban center di Bologna. Siamo arrivati puntuali all’appuntamento armati di curiosità e di una piccola macchina digitale. Dopo alcuni minuti di convenevoli&saluti tra le persone radunatosi sulla linea immaginaria – che, in corrispondenza del cartello, segna virtualmente l’ingresso alla sala sottostante Via Rizzoli – lo spazio espositivo è stato ufficialmente aperto al pubblico con l’invito da parte dell’Assessore all’Urbanistica di Bologna Virginio Merola a scendere la scala dalla quale si accede.

Sebbene siano passati solo due anni, sembra molto lontano quel 13 luglio del 2003 in cui si celebrava, con l’inaugurazione dell’architettura contemporanea dell’infobox, il cambio d’uso di una parte del dimenticato sottopasso della città e la “fondazione” di uno spazio informativo sui progetti urbanistico-architettonici di/per Bologna. All’epoca la cerimonia – suddivisa in due momenti della giornata (mattina per la stampa e sera per la cittadinanza ) – aveva avuto una importante partecipazione da parte dei Bolognesi e creato un’atmosfera festosa nonché adeguata alle circostanze, come da anni non si registrava in città.

Noi siamo entrati per ultimi proprio per documentare con alcune foto il breve passaggio che divide la piazza dal sottosuolo e viceversa. Con questa intenzione non poteva che saltarci all’occhio un particolare del cartello identificativo del luogo. Ci siamo accorti, infatti, che il logo – che segnala la presenza dell’urban center seconda edizione – è esattamente lo stesso identico di quello che dava il nome (stilizzandone la forma) al tanto discusso eBO. Ma non lo si doveva ri-fondare? E questo non doveva essere nuovo, alternativo, diverso, migliore? Non ancora entrati, abbiamo già da ora l’impressione che questo cartello più che il punto di partenza stia a segnalare il traguardo di una vicenda di cui difficilmente ci si potrà considerare soddisfatti, visti gli avvenimenti che l’hanno preceduta.

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© arcomai l L’ingresso al nuovo eBO.

Ri-pensando, inevitabilmente, al padiglione prima del suo smantellamento, esso – ponendosi essenzialmente come elemento di mediazione tra spazio aperto e spazio interrato – segnalava la sua presenza, ne svelava la sua funzione e, una volta entrati, invitava a scoprire i suoi spazi e conoscere le informazioni lì proposte. La “morte violenta” – che ha posto fine al complesso informativo – non solo avrebbe implicato la ri-lettura dell’urban center nel suo insieme e ri-chiesto una sua re-visione, ma imposto una nuova idea progettuale sia sul piano dell’accessibilità che su quello distributivo dei suoi spazi. Saranno state prese in esame queste eventualità? Noi nutriamo seri dubbi al riguardo.

Qualsiasi intervento con finalità di pubblico interesse (architettura in primis) ha sempre avuto e sempre avrà il dovere di farsi riconoscere come tale. Se non c’è un accesso chiaro ed invitante viene penalizzata la ragione stessa per la quale un determinato edificio/luogo è stato pensato. Ecco che allora, se verranno mantenute le dichiarazioni dell’assessore Merola in “Sotto le Gocce non c´è niente. L´Urban center è tutto da fare“ (La Repubblica, 14 gennaio 2005) secondo le quali quello attuale altro non sarebbe che un ingresso provvisorio e che il vero ingresso dovrà avvenire da Palazzo Re Enzo, la questione si fa ancora più complessa/critica di come ce la aspettavamo. Sarà grazie ad una sorta di servitù prediale che si accederà alla sala espositiva di Bologna? Bisognerà entrare da un edificio per poter entrare in un altro? Se così fosse, vorrà dire che apparirà presto un grosso cartello a forma di freccia sotto ad una delle finestre del Rubbiani a segnalare l’ingresso dell’eBO. E allora, ci sarà da percorrere corridoi, seguire altre fecce più piccole e scendere/salire almeno un paio di rampe che dovranno essere a norma e magari completate da un ascensore. Quindi perché anticipare la chiusura dell’infobox prima della scadenza dei due anni concordati, se ancora non è operativo il nuovo accesso? Esiste già un progetto? Quando verrà realizzato? Sono tutte riflessioni/domande dovute, ma probabilmente non così rilevanti avendo già in mente le conclusioni finali di questo contributo, maturate nei mesi precedenti alla “rifondazione” di questo spazio.

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© arcomai l L’assessore Virginio Merola pronuncia il discorso con cui inaugura ufficialmente lo spazio espositivo sotto Via Rizzoli.

Allo stato, appare però evidente che con questa operazione di “restaurazione” la città, timorosa, sembra aver deciso di aspettare, di non uscire allo scoperto, di nascondersi e guardare guardinga in quale direzione muoversi, di non mostrare alla luce del sole i suoi piani – sempre che li abbia – per fare di Bologna una città moderna. Quando ogni tanto nel nostro Paese qualcuno si alza per denunciare la mancanza di architettura cosiddetta “di qualità”, dando solitamente la colpa agli architetti, raramente punta però il dito verso chi dovrebbe non progettarla ma creare le condizioni per permettere a coloro che lo fanno di mestiere di operare in modo libero e trasparente. L’architettura italiana è prigioniera dell’incapacità delle istituzioni di auto-rappresentarsi a tutti i livelli di intervento (arredo urbano, architettura/edilizia civica, spazi pubblici,…), e ciò è dovuto per la maggior parte dei casi alla mancanza di conoscenza/competenza in materia di “progetto” di chi occupa posizioni di governo nei diversi ambiti decisionali. Questa condizione non solo penalizza la promozione dell’architettura contemporanea in Italia – rendendo arido il campo della progettualità non solo in ambito architettonico – ma crea equivoci di fondo all’interno del dibattito pubblico sulle questioni legate alle trasformazioni urbane. Come si fa a propagandare la “progettazione partecipata” quando i referenti naturali sono messi sullo stesso piano di chi non ha le competenze adeguate per dare giudizi in materia di progettazione? E poi, vengono fornite in modo serio ai cittadini le informazioni necessarie per comprendere le questioni in gioco?

Siamo finalmente dentro. Le persone, oramai appropriatesi del luogo, vagano invano alla disperata ricerca di qualcosa di nuovo. Da un primo colpo d’occhio avvertiamo che parte del materiale – che fino a sei mesi prima presentava i grandi interventi per la città del futuro – sembra improvvisamente scomparso. Dove sono finiti i grandi progetti che al di là della ferrovia avrebbero traghettato Bologna verso una nuova stagione della sua storia? Sono ancora validi, saranno attuati, o per qualche ragione sono stati bruciati? È difficile dare una risposta. Bisogna avere tanto tempo a disposizione, possedere almeno un diploma tecnico e non essere affetti da mal di schiena, visto che per le legende a supporto di planimetrie territoriali in scala con retini&campiture sono ad altezza ginocchio. La “metropoli” è qui divisa per parti, per quartieri, per distretti. È stato applicato un make-up che, come “fondo tinta”, sfuma il volto della città non permettendo di riconoscerne i suoi profili identificativi. Non appare una visione di insieme, non si riconosce il tentativo di svelare un’idea di nuova urbanità, di spiegare in quale direzione stia andando la Bologna del domani. Il linguaggio comunicativo adottato non è compatibile con i tempi e quindi inefficace, inutile, inidoneo a parlare al grande pubblico. Manca un allestimento inedito. È assente il tentativo di dialogare con i cittadini adottando un lessico nuovo e dinamico. Non sarà certo il totem elettronico per la navigazione tridimensionale sulla città a garantire innovazione e trasparenza a questa operazione. Tutto avviene sulle pareti, e nulla è portato al centro. Qui si dice e non si dice. È dovuta o voluta questa incapacità comunicazionale? Entrambi i casi non giustificano il difetto qui denunciato.

Mentre l’assessore inizia il suo discorso, mi vengono in mente le sue parole riportate nell’articolo de La Repubblica sopra menzionato: “Un progetto di Urban Center così concepito permetterebbe di affrontare anche il tema dell´architettura contemporanea su basi serie e davvero impegnative, a cominciare dal fatto che giovani laureandi e giovani architetti avrebbero un luogo dove sperimentare la progettazione partecipata o seguire con borse di studio, ad esempio, la costruzione del Piano Strutturale e del Piano Operativo Comunale. Questo Urban Center potrebbe essere il luogo promotore di concorsi di architettura e l´organizzatore di un corso di eccellenza universitario per la specializzazione dei laureati oltre ad essere la sede dove conservare e aggiornare l´archivio storico e il sito informatico dei piani urbanistici” […] “L´Urban Center vero a mio avviso non dovrà essere nel centro storico per affermare l´idea di nuove centralità urbane. E visto che ci sono rilancio: non sarebbe un tema appassionante per l´architettura contemporanea quello di aiutare la politica a demolire, anche nel centro (pardon: nel consolidato urbano), oltre che a costruire?” Queste dichiarazioni dimostrano che a Bologna vi sia, allo stato, un “conflitto di interessi” tra chi dovrebbe solo amministrare la città e chi invece dovrebbe mettere la propria competenza a disposizione di questa. Infatti da un parte abbiamo il Comune che vuole essere “centro” nonché laboratorio di progettazione – naturalmente la sua, quella partecipata – mediante il quale “educare” fin da giovani i giovani architetti a questa pratica messianica, dall’altro l’Ordine degli Architetti (oggi Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori) che – sebbene composto da ben 1.550 iscritti – è latitante/irrilevante (oramai da troppo tempo) sulla scena civica locale. Paradossalmente, allo stato – pur avendo la nostra corporazione una propria sede, tra l’altro sproporzionata rispetto ai servizi che offre – un architetto per poter conoscere le trasformazioni urbanistico-architettoniche di Bologna dovrebbe andare all’urban center di Via Rizzoli.

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arcomai l Pannelli tecnici con retini e legende rendono difficilmente leggibile il materiale esposto a chi non è addetto ai lavori.

Con il passaggio di consegne da una amministrazione all’altra ci si attendeva qualcosa di inedito, per alcuni anche un gesto rivoluzionario, sia dal punto di vista progettuale che da quello simbolico. Ci si augurava in sostanza una interpretazione nuova, più matura e coraggiosa del luogo e delle sue funzioni. Invece tutto ciò non è accaduto. Con la rimozione forzata dell’infobox e delle argomentazioni che l’hanno accompagnata, a mio parere non solo si è conclusa in modo grottesco una vicenda – dalla quale si poteva tentare di recuperare una certa credibilità proponendo una vera alternativa che potesse giustificare le scelte adottate -, ma si è compromessa anche la ragione stessa di avere uno spazio informativo&espositivo sulle trasformazioni urbane&metropolitane di Bologna. Allo stato mi chiedo se vi sia veramente bisogno di un urban center di questo tipo e se abbia ancora senso voler imporre una “centralità” (ovunque essa sia) senza ri-leggere il sistema-città nel suo complesso sia sul piano morfologico che simbolico nonché se sia onesto far credere ai cittadini di partecipare alla progettazione della città – quando i giochi sono già stati fatti da tempo – e infine se sia serio cercare di portare nei sotterranei migliaia di persone per informarli sui cambiamenti della loro città, quando poi sopra essa viene manipolata&starvolta da un’informazione partigiana, faziosa e divisa.

Alla conferenza “Estetica dell’architettura e percezione dello spazio urbano” – organizzata nell’ottobre 2003 da ARCOMAI – il Prof. Franco Farinelli, facendo riferimento a quando Bologna era città informazionale e con il sapere elaborava ed esportava modelli del vivere civile, così dichiarava: “la città è tale nel momento in cui è in grado di comunicare sé stessa”. Credo che Bologna se vuole essere all’altezza delle sue ambizioni, debba puntare sull’attivazione di un processo nuovo fatto di scelte coraggiose e indipendenti rispetto agli schemi imposti da una politica che si dimostra ovunque incapace a proporre idee costruttive e a comunicarle. Se sarà in grado di fare questo vorrà dire che per chiunque cammini per le strade e le piazze della città sarà possibile percepire che qualcosa sta accadendo, che la città è viva e capace di innovarsi perché ha progetti in via di realizzazione, che le persone che l’abitano sono protagonisti consapevoli/partecipi delle sue trasformazioni, che il tempo passa e la loro Bologna è al passo coi tempi. Entrare così in un luogo adibito all’informazione sulle innovazioni urbano-architettoniche sarà né il punto di arrivo né il traguardo di un percorso dinamico di conoscenza, ma una delle tante esperienze che un sistema civico aperto dovrebbe garantire in modo trasparente a chiunque viva/visiti la città.

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© arcomai l La città, divisa per quartieri, non riesce a comunicare sé stessa.

 


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