Ecologia non strutturale

“Ecologia” per noi significa sia considerare il logos del mondo sia considerare non lo stato delle cose, ma la dinamica delle parti correlate e connesse, i rapporti tra le cose, nel senso che sono molto più interessanti le relazioni, gli scambi, i rapporti, delle descrizioni e dei progetti prefiguratamene statici. Ciò, naturalmente, se proprio vogliamo continuare a riproporre vecchie e superate categorie, vale per … URBANISTICA … ARCHITETTURA … MOBILITA’ … Significa considerare il sistema “eco” e, quindi, in definitiva, ancora una volta, il sistema più vasto possibile, che contiene tutto. In questo senso “ecologia” contiene anche tutti gli altri “titoli”. Significa ragionare sempre in termini evolutivi e relativi.

La prefigurazione è già superata-obsoleta-inutile e, anzi, dannosa (perché blocca il discorso), appena SI FISSA; l’innesco di dinamiche ha futuro, anche se non noto. Interessa progettare un processo di avvio, di messa in moto, un motore che si nutre di esiti transitori rinnovabili più che un arrivo, un esito definitivo un prodotto finito, e studiarne i meccanismi di gestione e di immediato riscontro, più che di controllo vero e proprio.

SPIRITO ECOLOGICO = SISTEMICO = TRANSDICIPLINARE = OLISTICO.

Vogliamo essere concreti: nel nostro caso ciò è una critica al “piano tipi-co” che si va costruendo a Bologna. Sì!, è vero, le nuove leggi costringono ad un’impostazione più aperta, il documento preliminare del PSC fa di tutto per essere “solo” programmatico, ma l’imbuto della prefigurazione unica rimane, la rigidità delle previsioni è voluta e cercata, la base previsionale cronodimensionale (tutto l’apparato statistico) è un appoggio palesemente zoppo, superato già appena detto. Si vuole deliberatamente eliminare ogni “rischio” di possibili eventuali futuri progetti urbani, quando e là dove eventualmente servirà o piacerà, perché ciò è l’esito della “lotta” ai programmi integrati o ad altre formule di operatività tecnico-urbanistica, che, peraltro, costituiscono variante ai piani solo perché e finché i piani sono rigidi. Se ne aborrisce la formula (e sono solo strumenti) per paura di non riuscire a controllarli. La “tutela” di tutto e di tutti diventa l’espressione del concetto positivista monomandatario di verità e giustezza, in definitiva autistico, perché sarebbe vero solo allorquando fosse davvero di tutti, invece specchio delle proprie convinzioni appena si presenti anche un solo dubbio – ecco, i dubbi non ci sono?

E Bologna continuerà ad essere una città “bloccata” per definizione, per prefigurazione voluta, non importa bloccata in quale modo o su cosa, è un problema per così dire “a priori”, di metodo. Bloccata nei progetti di oggi, serenamente sicuri della propria giustezza da qui a quindici anni (!?), come lo è stata nei progetti del PRG ’85. Perché oggi dovremmo avere capacità prefigurative superiori di allora e poi, soprattutto, perché dobbiamo prefigurare (che è cosa totalmente diversa da “progettare”)?. Un grande filosofo disse, e doveva essere una volta per tutte, ma, tant’è …, “un pensiero viene quando “esso” vuole, e non quando voglio “io”, traducibile nel fatto che possiamo noi, e ciascuno di noi, tutti gli “io” che vogliamo e che “partecipano”, pensare e prefigurare le cose che devono valere anche per gli altri, ma poi, sempre, esse (le cose) si faranno o non si faranno indipendentemente dal noi; non perché qualcuno ha il ruolo e la convinzione di saper prefigurarle le cose accadono, come se non potessero accadere e farsi se non le prefigurassimo; non perché c’è un io o un noi si fanno; cioè il soggetto prefiguratore non è affatto la condizione perché le cose si facciano.

Si dirà: e allora non programmiamo nulla e non gestiamo nulla?, no! E’ vero il contrario, programmiamo quanto ci pare oggi giusto e doveroso fare ma non fissiamolo, occupiamoci di mettere a punto meccanismi di gestione dinamica e non statica, gestione delle cose non prefigurate, e non è difficile rintracciare esempi pratici: la pressione insediativa su Bologna per i prossimi quindici anni sarà determinata/controllata dalle scelte di oggi?; i prezzi delle case caleranno perché così si vorrebbe?; si costruiranno dodicimila nuovi alloggi perché così si è determinato?; aumenteranno l’immigrazione ed i single?; aumenteranno i bambini e gli anziani?; in quell’immobile (esistente) ci saranno uffici piuttosto che residenze o negozi?; ma che bisogno c’è di prefigurare scenari così rigidi per poi essere in difficoltà appena si deve riconoscere che qualcosa cambia? E in tal caso non si è mai pronti!. perché, in definitiva, continuare con la solita urbanistica rigida prescrittiva e deterministica invece di farne metodologia adattativa elastica e in sostanza dinamica?. Forse che gli esempi in tal senso non sono positivi? E, comunque, chi si può arrogare il diritto del giudizio di valore assoluto per tutti e per l’avvenire? Forse che poi, come sempre, se si ha da fare una cosa non immaginata, non la si fa?, ma a pena di varianti e tempi eterni, tra mille difficoltà burocratiche …

Un esempio di logiche adattive e non prefigurative, per uscire anche dalla “metafora” urbanistico-politica, è nelle possibilità offerte dal movimento del terreno, concettuale e reale, la commistione-integrazione-fusione-amalagama di progettazione architettonica e landscape porta ad interagire con tutti gli elementi extra costruiti e con l’elemento temporale. Nulla vieterebbe (lo vietano i regolamenti …), costruita una cosa, di costruirne poi un’altra sotto o sopra (un parcheggio sotto un edifico storico, un parco sopra una discoteca, una strada sotto un parco o una collina, uno spazio per feste – standard – sopra un blocco ad uffici, …).

Un’architettura che “possa” progettare il terreno urbano, un progetto di suolo e sottosuolo né preliminare né posteriore al progetto architettonico, bensì indissolubile, genera interazione dinamica e moltitudini di paesaggi virtuali, mondi paralleli che offrono più opportunità contemporaneamente. Architettura fusa con topografia aumenta lo spazio (come il tempo). Se le risorse disponibili sono limitate, da un lato si tratterà di farne uso oculato e razionale, dall’altro di implementarle: usare i tetti e gli interrati, usare il costruito ed il verde, usare il terreno ed il paesaggio, la prossimità e la lontananza, usare i “tempi” oltre agli spazi (l’uso dei tempi fa diminuire le necessità spaziali), significa attivare risorse nuove o, meglio, tradizionalmente inattive (vedi l’uso notturno di spazi sul coperto di uffici vuoti o la possibilità di parcheggiare liberamente -standard d’uso- durante il giorno negli stessi spazi che nottetempo sono ad uso privato, per esempio). Cerchiamo di incrementare la biomassa ed il biotempo disponibili. Ma ciò, appunto, non è prefigurabile e, soprattutto, gestibile in termini convenzionali, come convenzionali sono i regolamenti e le norme urbanistiche in atto oggi.


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