L’architecturally correct è ‘made in bo’

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© arcomai l La citta’ di Bologna divisa dal “caso gocce”.

C’è qualcosa di “nuovo” in città, e Bologna non se ne è accorta. Soprattutto chi non ha saputo vederne la straordinaria eccezionalità sono stati proprio gli addetti ai lavori, cioè quella grande famiglia di 8.000 professionisti (architetti, ingegneri, geometri, periti edili) che avrebbero dovuto – come progettisti – riconoscere l’unicità dell’infobox grazie alla quale tentare di mettere in discussione quei parametri che tengono blindato il dibattito sulla città schiacciato sull’ormai obsoleto dualismo “città storica” e “periferia”; sebbene questo nucleo di parenti siano stati da tempo “separati in casa” – recentemente si è ri-trovato moralmente unito a livello nazionale contro lo “scandalo” del condono edilizio, mentre in ambito locale si è ri-congiunto fraternamente – tanto da far registrare il “tutto esaurito” – al convegno, organizzato il 16 gennaio presso la sede dell’Ordine degli Architetti Paesaggisti, Pianificatori e Conservatori di Bologna, in cui sono stati indicati “i profili applicativi, gli indirizzi e i comportamenti da seguire” per sanare gli abusi tanto discriminati dalla maggior parte di loro.

Unici al mondo, con il “caso gocce”, la nostra categoria è riuscita a registrare a livello internazionale il copyright de lo “architecturally correct”: il “bigottismo architettonico” madeinbo che si manifesta ogni qual volta ci si scambia tra colleghi pareri sul “diverso” – molto raro tra l’altro da queste parti – creando solitamente imbarazzo&diffidenza. Ciò è dovuto al fatto che in questa nostra “dieta mediterranea” della “cultura del progetto” si è perso il “peso critico” nei confronti dell’architettura contemporanea che, insieme al “fondamentalismo del gusto”, porta ad uno stato d’animo collettivo che si manifesta – quando si intende esprimere un giudizio – in timore di offendere il collega o di mettere, inevitabilmente, a nudo le proprie tendenze politico-trasportistiche.

A Bologna esiste una linea immaginaria&invisibile che divide la città e spacca in due la nostra comunità, un asse rigido di simmetria che ribalta – a seconda delle circostanze – il senso comune che si dovrebbe avere delle cose. Viviamo in una perenne “guerra civile” – perché combattuta tra amici e/o frequentatori degli stessi salottini – in cui si fronteggiano due antagonismi partigiani inquadrati da un’informazione – anch’essa divisa&faziosa e speculare&speculativa – che sebbene adotti su tutti i fronti le stesse armi convenzionali della comunicazione, ne manipola i contenuti oggettivi, compromettendo così le finalità del servizio che dovrebbe essere dato al pubblico in tutta la sua integra indipendenza. Ecco che allora risulta difficile conoscere cosa realmente accade in città, quali siano i progetti necessari per la sua crescita e come/quando questi vengono realizzati. Lungo questa sottilissima linea ci siamo noi architetti, noi che ogni giorno cerchiamo di districarci tra i diktact®olamenti delle soprintendenze&commissioni, di educare una committenza poco illuminata (per non dire spenta), di ostacolare un processo che giorno dopo giorno ci sta facendo diventate impiegati di noi stessi. Dopo tutto questo, come se non bastasse veniamo anche tacciati di distruttori della città, di violentatori dei suoi valori&tradizioni anche se poi ciò che di “nuovo” viene realizzato non è stato progettato da noi.

Sebbene si viva in un’epoca in cui le ideologie sembrano oramai sorpassate, nel nostro Paese si stanno consolidando quelle pericolose dell’immobilismo, della restaurazione, della conservazione che insieme alimentano il “fondamentalismo” para-estetico per cui tutto ciò che è nuovo è cattivo&brutto – a meno che non sia realizzato in periferia – mentre tutto ciò che è opera di restauro, ri-qualificazione, ri-uso, ecc. è bello&buono ovunque. In questo “totalitarismo del gusto” però nessuno si pone mai il problema di come vengono portate a termine queste operazioni, dei danni irreparabili che vengono arrecati ad edifici di pregio o del fatto che altri potenziali “malati” del nostro patrimonio (non solo costruito) vengono inevitabilmente esclusi perché è difficile o non conveniente tappezzarli con le gigantografie di mecenati&sponsor.

Tutto ciò genera una fastidiosa forma di “intolleranza” – figlia anche in questo caso dell’ignoranza – che si manifesta con l’ormai contagiosa “sindrome del C.T (Commissario Tecnico)”, per la quale tutti hanno già capito tutto perché nessuno è competente. Questo stato delle cose contribuisce ad allontanare il nostro paese dalle altre realtà europee, ma soprattutto penalizza, divide e indebolisce coloro i quali con la propria esperienza professionale potrebbero aiutare a costruire una stagione che sia veramente nuova e al passo coi tempi. Per quanto sia noto a tutti che la professione dell’architetto sia più o meno direttamente condizionata dal mondo della politica, ciò non deve obbligarci ad abbassare la guardia e ad essere succubi di questa. La condizione ideologica – qui denunciata – è proprio l’espressione della “normalizzazione” del pensiero politico in Italia, della sua “omologazione” e quindi di quella della cultura urbana contemporanea, della “incapacità” di rappresentare la modernità di cui tra l’altro vuol far credere di esserne promotore.

 Più che in questo palco-oscenico tragi-comico della politica made in italy credo profondamente nel ruolo politico-istituzionale che la architettura può avere oggi come strumento di educazione, emancipazione, cambiamento e promozione di modelli alternativi al presente e non solo in ambito locale. Dico architettura perché la considero come unica espressione del progetto inteso come processo in progress in cui la “interdisciplinarietà” e il “dialogo” sono i fattori vincenti attraverso i quali si ottiene un risultato finale che soddisfi/anticipi le esigenze/aspettative di una determinata comunità. Un’architettura prima di esistere come “fatto” finito è progetto vale a dire un’entità virtuale e immateriale attraverso cui si arriva con responsabilità all’esecuzione di un obiettivo voluto e condiviso. Alla base dell’innovazione c’è sempre un’idea, un confronto, una critica, una scelta e quindi una visione politica del mondo. Il progettista per poter operare in modo libero deve essere messo nelle condizioni di fare ciò che deve essere fatto.

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© arcomai l Il dibattito sui giornali intorno al cado de “le gocce”.

 


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